venerdì 12 aprile 2013

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (167)

Giuseppe Leuzzi

Napoli
Darà avvio domani all’America’s Cup, evento memorabile della velistica, spettacolare anche, ma nessuno lo sa.
La città è intrappolata nella sue polemiche - De Magistris, Bagnoli, la camorra.

Non ci sono presidenti della Repubblica meridionali, eccetto due napoletani, De Nicola, provvisorio, e Napolitano – e Cossiga, sardo che però non si prendeva sul serio.

Manzoni conversando con gli amici dà per scontato che a Napoli una categoria d’impiegati pubbici sia addetta a giurare il falso. Il pettegolezzo è raccontato da Margherita Provana di Collegno, una nobildonna che frequentava Manzoni in vacanza sul lago Maggiore. Il pregiudizio antinapoletano è in lui, sempre lucidamente patriottico, più alla casa regnante che alla città. Ma questo gli veniva da una lettera di Vincenzo Monti: “Per disonore dell'umana ragione non v’è cosa in Napoli tanto notoria, quanto la libera e pubblica vendita che vi si fa dei falsi attestati. La tariffa loro ordinaria è di tre ducati, o di quattro, secondo la fame di chi vende, e il bisogno di chi compra. Se tu vuoi dunque soppiantare un processo, alterare una particola di testamento, falsificare qualunque carattere, tu non hai ch’a gittar via i rimorsi, e dar mano alla borsa. Le botteghe de’ falsari son sempre aperte. Tiriamo un velo sopra queste incredibili e non mai più udite abbominazioni. Il pensiero non può fissarle senza raccapriccio”. Ma la pratica non era più viva a Napoli che a Roma.

È ormai Milano, per la quale fa il lavoro sporco, dei giudici e degli sbirri. Toni Servillo, che è diventato grande a Roma, lo stabilisce: “L'unico luogo che forse potrei scambiare con Napoli è Milano, l’altra grande metropoli italiana.”

“Mi contava un sojatore che a Napoli, in certi alberghi, usava il servitore entrare nella camera del forastiero, la bella mattina del suo arrivo, con una guantiera sparsa di piccoli e grossi stronzi, ciascuno dei quali avea appeso un cartellino e scritto su un prezzo. I grossi costavano molto più dei piccini, ed alcuni tenevano in capo un cappellino di prete. Erano questi i prodotti degli abatini. E il forastiero sceglieva. E detto fatto si apriva la porta, e compariva ai comodi del forastiero la parte corrispondente – autrice dell'esemplare”. È una prosa di Carlo Dossi. A disdoro di Napoli o di Dossi?

Dunque “facite ammuìna” è un falso. Lo ha accertato Roberto Maria Selvaggi sul “Mattino” nel 1994, e Wikipedia ne accoglie la dettagliata verità. Un falso “Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie”, del 1841, in napoletano e in italiano, con le note regole (All'ordine ‘facite ammuina: tutti chilli che stanno a prora vanna poppa, e chilli che stann a poppa vanna prora…”) a firma dell’Ammiraglio Giuseppe di Brocchitto e del Maresciallo in capo dei legni e dei bastimenti della Real Marina Mario Giuseppe Bigiarelli, che si vende ancora all’uso dei turisti. Nel regolamento della Marina borbonica tale articolo non c’è. I due alti ufficiali firmatari non esistono. Brocchitto non risulta nemmeno tra i cognomi italiani. Né c’era il grado di Maresciallo dei legni, del tutto inventato. Il regolamento della Real Marina, come tutti gli atti ufficiali, era redatto in italiano. E la stessa versione napoletana non sarebbe autentica.
Anche in questo caso, la realtà borbonica vuole essere migliore di quella che la tradizione unitaria le ha imposto. La Marina napoletana vantava una tradizione antichissima, con un’Accademia di Marina già dal 1735, su cui poi Livorno sarà conformata. Comandata a lungo dall’ammiraglio inglese John Acton,  costantemente rifornita dai Cantieri di Castellammare di Stabia di nuove unità, tra cui numerose navi a vapore, la Marina era lo strumento principale di difesa del Regno delle Due Sicilie. Cavour volle per la Marina italiana le uniformi, i gradi e i regolamenti di quella borbonica.
L’appalto interminabile
G.A.Stella e il “Corriere della sera” scoprono domenica i falsi ribassi in appalto. E con caratteristico riflesso legano la pratica al Sud. Con il solito esempio della Salerno-Reggio Calabria, e con quello nuovo del Museo Archeoligico di Reggio. Mentre i fasi appalti sono lì da vent’anni, dominano la scena nazionale, sono all’origine della spesa incontenibile dello stato e quindi della recessione – col Sud che al solito ne è vittima impotente. Da vent’anni, cioè da dopo Mani Pulite. Che, bisogna ricordarlo, fu la vendetta degli imprenditori falliti contro gli altri. Ma anche della emprise di Milano sull’Italia tutta.
Con lo stesso meccanismo si fanno ribassi insostenibili alle gare d’appalto per sbaragliare ogni vera concorrenza. Subito dopo, spesso prima ancora di mettere in strada la prima macchina, si chiede una
revisione prezzi, e poi un’altra, e un’altra. Fino a moltiplicare il valore dell’appalto, con false revisioni dei capitolati, di tre e quattro volte. Moltiplicando di altrettanto i tempi di consegna.
Sempre più il Sud si deve liberare dell’Italia.

La mafia è (anche ) la giustizia
E se l’arresto di Nicastri fosse scattato subito in Sicilia, invece che dopo vent’anni? Prima che diventasse il “re dell’eolico”? Questo sito ha posto giustamente il quesito, perché di Nicastri si sapeva tutto, e non da ora, e non per caso, indagando episodicamente su un fatto correlato. Lo sapevano i suoi concittadini, e quindi anche i carabinieri, e i giudici.
Un certo discorso è inevitabile – irrimediabile. Per il condizionamento storico, sociale, tribale, caratteriale anche, e per la forza dell’abitudine e del pregiudizio. Per la frontiera mobile vero\falso anche. Ma la realtà è a volte rovesciata. Per un meridionale che viva nel Meridione la mafia è un delitto costante, continuato, e un sopruso anche quando non ne è vittima diretta. Una sofferenza quotidiana, sia pure d’insorgenza sporadica. Una malattia cronica. Da prevenire, curare, operare chirurgicamente se necessario, subito, il prima possibile. Per l’apparato repressivo invece, magistratura e forze dell’ordine, è una pratica. Un dossier, da accumulare come tutti i dossier, e da aprire di tanto in tanto, per una causa maggiore – un delitto più grave, una richieste autorevole. Ma così sempre ex post, quando il danno è stato fatto, e il virus è diventato pestilenza (fomite di paure, depressioni, rinunce).
Perché la giustizia ha necessità di provare il crimine, si dice.  No, il crimine è comprovabile nell’immediato, all’atto della denuncia. Nell’immediato è anche represso agevolmente, prima delle “carriere” criminali, forti dei crimini impuniti e delle disponibilità finanziarie che vi si accompagnano, compreso certo il traffico delle influenze.

leuzzi@antiit.eu

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