Democrazia Cristiana- Ora che ritorna – o è immortale (questo sito lo constatava dieci giorni fa,
http://www.antiit.com/2013/04/il-compromesso-ribaltato.html ) – è bene imparare a conoscerla. Calasso ha dieci righe in “L’impronta dell’editore”, p. 106, che valgono un trattato sulla cultura Dc. Nel dopoguerra “i democristiani, con la loro molle e proterva accortezza… avevano lasciato capire che a loro bastava la pura, muta, incessante gestione del potere politico ed economico. La cultura poteva invece amministrarla la Sinistra… Abbandonarono persino il cinema, accontentandosi di vigilare sulle scollature. Mentre non ebbero dubbi quando apparve la televisione – quella sì era roba per loro” (non abbandonarono però i festival del cinema, i premi, e il credito al cinema, la Bnl).
Questo dice anche l’illusorietà del dominio del Pci sulla “cultura”, o della “cultura” stessa così dominata.
D’altra parte Calasso omette di dire, proprio lui che dà all’editoria sostanza sensoriale, visiva, olfattiva prensile (il libro fa dire a Contini “onusto di palpitazione”), e non imprenditoriale, che là dove ci sono i soldi la Dc non molla. Al ministero: nella scuola, all’università e nella ricerca. E qui dove ci sono i soldi: non nella filosofia o altre umanità, o nella matematica, ma nelle miliardarie particelle, astrofisica, energia. Col ministero quindi le cosiddette “istituzioni”: il Cnr, l’Esa, l’Enea, l’Infn, dove corrono i miliardi, sono saldamente presidiati dalla Dc, così come l’Enel, l’Eni, l’Autorità per l’Energia.
La Dc presidia superba perfino il Nobel scientifico. Se è vero – è vero - che ottenutolo con Rubbia, forte della grande quota italiana al Cern di Ginevra, l’hanno vivamente sconsigliato a Stoccolma per altri italiani, quali Cabibbo e Parisi. Il Nobel sente sempre la comunità scientifica del paese dove il candidato opera, e la fisica “democristiana”, Zichichi, Majani e lo stesso Rubbia hanno sempre opposto un muro.
Grillo – O la fantasia al potere. Che non è gradevole, bisognava saperlo.
Internet – Disturba come tutto ciò che è democratico. La rete sicuramente lo è, il sapere condiviso (wikipedia, la biblioteca google, testi e documenti liberi online). Senza però cessare di essere condizionato, come ogni strumento di comunicazione, da chi ha più soldi, più mezzi, anche solo tecnici o strumentali, e più “parole”.
Italia – È un paese che va in tilt per un articolo di giornale, sia esso pure l’ “Economist” o il “Financial Times”, cioè giornali di interessi particolari, le banche d’affari. A opera dei giornali italiani. Come se non si sapesse come nascono gli articoli. La reazione all’“Economist” o all’“Ft” naturalmente ne conferma e consacra l’autorevolezza: dai giornali di paese al presidente della Repubblica, passando per i commentatori, i talk-show, i tg a ripetizione, e sociologi, antropologi, scienziati della politica. Dunque è un paese tenuto deliberatamente in mora dall’establishment, masticando fesserie. O l’establishment è ignorante, che però non può essere.
Bisogna anzitutto dire che l’italiano è un genere. Recente, di dopo l’unità – altro è l’italiano da Dante, malgrado le deprecazioni, e Petrarca fino a Muratori e Leopardi. Ma di successo. Ed è un autoritratto: l’arcitaliano di Malaparte, e di Longanesi, Montanelli, Maccari, Barzini jr. (e di Bocca, Biagi, Fallaci, Severgnini, è un genere ritornante con l’unità) è un autoritratto. Poiché il genere è di successo, si può dire un autoritratto sociale? Sì e no: sono tutti scrittori mordi-e-fuggi, abili surfisti a beccare l’onda, sapienti certo, disinvolti, accorti. E spregiudicati, sempre dalla parte della ragione, che dicano una cosa e subito dopo il suo contrario. Fanno della loro esistenza un monumento, ora a destra ora a sinistra, ora delatori ora eroi, sempre molto moralisti, e muoiono Arcitaliani. Avendo tutti scritto lo stesso libro.
Poi ci sono quelli che, essendo stati a Parigi, disprezzano l’Italia: D’Annunzio, Malaparte, Sciascia, Calvino. Non senza ragione, si può osare dire, Parigi col treno essendo realtà nota da tempo ormai a tanti. Che però non è quella degli scrittori italiani: non c’è più ordine a Parigi – onestà, dirittura. C’è più consistenza per i gensdelettres: c’è una società intellettuale e anzi letteraria, più riconoscimento, più scambio, non sopraffatti dal cinismo, la misantropia, la paranoia, e quindi un intellettuale ci vive indubbiamente meglio. C’è conversazione. C’è giornalismo. C’è industria culturale, ma nel senso del riconoscimento, della difesa di se stessi. L’intellettuale ha mantenuto in Francia lo status perché ha una consistenza, non si è sfiancato, per il Partito, per la lottizzazione, per la confraternita.
Riassumendo, si può dire questa dell’italiano una crisi dell’opinione, la crisi dell’intellettuale – il paese continua a lavorare sodo.
L’imprenditore viaggia invece, e sa, impara. Anche piccolo, anche ignorante. Quanti industriali che sono poco più che artigiani all’Est, Albania, Romania, India, Cina. Il turista italiano fuori è il quarto o il terzo maggior flusso europeo, benché di seconda categoria (lo fanno viaggiare nella stagione sbagliata), ma apprezzato, perché “se ne intende” (è flessibile) e perché spende. Perfino il prete si può dire una difesa dell’Italia, almeno finche il papato sarà a Roma. L’intellettuale non ha grandi saggi, a parte Eco, non ha columnist, e anche se parla le lingue non sa nulla di sopra Chiasso – la Germania? la stessa Francia?
I libri “contro” si moltiplicano. Essere italiano non va di moda con la Seconda Repubblica, e con la Terza. Due nozioni superficiali (propagandistiche), alle quali quindi l’Italia può sopravvivere. Ma perfino un ex presidente della Repubblica, Cossiga, ha sentito il bisogno di scrivere con Pasquale Chessa una controstoria d’Italia che ha intitolato “Italiani sono sempre gli altri”. Italiano insomma è un’ingiuria.
Nel volume “L’Italia repubblicana vista da fuori”, un’analisi a più mani dei cinquantacinque anni della Repubblica dopo il 1945, curato da Stuart Wolff per il Mulino a fine millennio, lo storico nota nella premessa che la questione settecentesca del “carattere nazionale” è la negazione di ogni vera indagine storica. E che proprio attorno ad essa gira l’opinione pubblica italiana, con risultati deludenti sia nell’individuazione del modo di essere, ora, in concreto, dell’Italia, sia nei riferimenti, grossolani, di maniera, imperialistici (violenti) dei modelli stranieri.
Un capitolo a parte è la nazionalità, poco offerta e molto rifiutata. Si vede fra i più poveri, il subcontinente africano. Entrano, perché è più facile, ma con l’ambizione di passare in Francia, in Gran Bretagna. Anche in Germania benché non ne posseggano la lingua. Specie tra i buoni cattolici: molti usano le missioni, in Africa e nel subcontinente indiano, per entrare nell’Ue, per poi scappare a Londra o Francoforte.
Morale – La questione morale è sempre stata posta dai grandi corruttori: Cavour, la Destra, Giolitti, Mussolini. Mani Pulite ha plurimi punti di contatto: frsi prestare soldi dagli inquisiti, discriminare gli inquisiti, raporti speciali con gli avvocati, confidenze selezionate con i giornalisti, luso della funziione a scopo di carriere. L’antologia di David Bdussa, “L’italiano”, mette non volendo fra i moralizzatori alcuni fra i maggiori corruttori, Montanelli e Malaparte.
Si può dire lo scadimento dell’Italia proporzionale all’abortita questione morale. I libri “contro” sono di due tipi: la fantasia (l’elzeviro, il ghirigoro, le filippiche, o ciceroniane…), e l’incultura, in genere legata al Meridione, alle mafia, a Berlusconi, e ora alla politica tutta. Mentre l’origine è nella questione morale. La questione morale è causa di se stessa. Per essere artefatta, di parte, mirata. Cioè corrotta.
astolfo@antiit.eu
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