giovedì 11 aprile 2013

Il Sud è un altro mondo, negli Usa

Carson McCullers riesce a distanza – nella riproposta (la traduzione è la stessa di vent’anni fa, per Guanda, di Franca Cancogni) si apprezza di più - un doppio miracolo. Dare vita con la scrittura a un mondo torpido, inanimato. E insieme, vittima di malattie feroci di cui morirà a 50  anni, dopo brutte sofferenze, a un’immagine di sé vivacissima, amatissima, volubilissima. Una straordinaria vitalità che l’aveva portata a scrivere le sue cose migliori già prima dei vent’anni.
Qui già pratica al meglio, in una delle sue prime opere, quella sorta di “grado zero della scrittura”, non impressionista né espressionista, impassionata, che sarà la sua cifra. Una scrittura realista-realista – non melodrammatica, non palingenetica. A dispetto di una vita personale turbolenta, di amori e altri protagonismi vari. Malgrado la malattia, o forse in reazione ad essa. E di una situazione sociale, appena fuori la porta di casa, di estrema miseria. Avvia qui anche, più o meno in contemporanea con Faulkner, la ripresa del monologo sterniano, sia pure nella terza indiretta – scrittrice molto colta, come è il caso del resto dei tanti “vitalisti” americani, ha pure il segreto di Finnegan’s Wake: Lucia Joyce era psicotica, con James parlavano in una lingua chiusa a loro due (all’interramento di James Lucia dice: “Ora è sepolto nella terra, e sente tutto quello che si dice, furbo, no?”).
Questo “caffè triste”, benché non in forma di ballata del vecchio Sud, è ugualmente triste, un mondo dei vinti. Ma più ebeti che vittime. Ma non “segnati”: desolazione, isolamento, deformità, sembra un mondo di zombies, e invece formicola d’umanità. Si apprezza ulteriormente in controluce sulla nostra letteratura del Sud. Negli Usa, “razzisti”, il Sud è un altro mondo. Senza più, senza tare né abominii. In Italia, tanto buona, il Sud è l’inferno. Benché vittima soprattutto di se stesso, i suoi scrittori sono émigrés, a volte anche fisicamente, ma più quando risiedono in loco. Che non sanno vedere il loro mondo che sotto la forma del romanzo sociale, da un paio di secoli ormai uniforme e gelido, dopo Mastriani, oltre che ripetitivo uggioso. A differenza di Faulkner, McCullers e O’Connor, perché semplificano le passioni – la riducono a una sola, il risentimento (non nobile: è l’invidia sociale, da vittime volontarie e anzi militanti del possesso che si odia). Anche il Sud mescola la collera alla risata, e canta, balla, tuba trepidante, fa l’amore furioso (le “fughe”, le sconvolgenti passioni bovarine), guarda il mare, cammina in montagna. Quanto cammina, troppo… Gli pace la fannullaggine.
Carson McCullers, La ballata del caffé triste, Einaudi, pp. 155, € 13

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