“L’interpretazione sensuale e sessuale di
‘Genesi III’ nasce così, dall’incrocio dell’ebraismo con la grecità,
nell’Alessandria del primo secolo”, con Filone Giudeo, neoplatonico. Beverland,
un poligrafo di fine Seicento, la eleverà a sistema, seppure per irriverenza –
Antonello Gerbi ne ipostatizza la radicalità in un’“ipotesi Beverland”, e ne fa
la lunga storia.
La fase
antica dell’“ipotesi” si estende “da Filone a Sant’Agotino e alla Scolastica”,
con Clemente Alessandrino, Origene, Sant’Ambrogio, San Zenone di Verona, e in
campo ebraico Maimonide. La ripresa in età moderna avviene a opera di
Leone Ebreo, 1532, e Cornelio Agrippa, 1534, mentre Lutero e Calvino riprendono
sant’Agostino, quindi con progressione ininterrotta fino ai giorni nostri,
“oggetto d’oscura derisone” nel 1678 con Beverland, e dopo. Esprimendo “con
mirabile plasticità la fede nell’ereditarietà del peccato”. Rincalzando “la
tesi più rigorosa e pessimistica circa l’uomo e il suo destino”. Semplice e
chiaro.
Una
ricerca dimenticata, di un autore trascurato, ma di dottrina sicura, di
giudizio approfondito, equilibrato, incredibilmente lineare. Fondamentale, si
penserebbe, per la condizione della donna minoritaria e anzi peccaminosa, oltre
che dell’oggetto proprio dell’indagine, del peccato originale. Indiscutibile
alla lettura, tutto vi è significante, e anzi lampante. Con “la dicotomia
insolubile della Chiesa, istituzione divina e anche politica” (p.31). Ma senza
tacere che il “beverlandismo”, l’irrisione libertina, ossia “vedere
nell’istinto generativo il peccato stesso” (55),viene da sant’Agostino, il
peccato originale ereditario.
Studioso
originale del romanticismo, Antonello Gerbi vi ha trovato tra le radici nel
Settecento l’“ipotesi Beverland”, specie tra i due fervorosi corrispondenti
Hamann e Herder - ma anche nell’“eterno femminino” di Goethe – e poi nella
riflessione successiva, dei romantici a titolo pieno. Storico delle idee (fu
docente di Storia delle dottrine politiche prima d’imbozzolarsi negli studi
economici alla Banca Commerciale del suo amico e protettore Raffaele Mattioli),
fervente germanista, autore infine de “La disputa del nuovo Mondo”, tuttora
insuperata, Gerbi esordì con gli studi sul Settecento. A 24 anni pubblicava “La
politica del Settecento. Storia di un’idea”, col patrocinio di Croce da
Laterza, nel 1928. Nel 1932 licenziava “La politica del Romanticismo”, di cui
analizza le radici nel Settecento. Dell’anno successivo è questo “Peccato”. Già
denso dello spoglio del Migne, l’immensa trattatistica patristica, nonché di
tutta la filosofia maggiore, irrobustito da contributi variatissimi, di vescovi
sparsi, eresiarchi, profeti, rabbini, pensatori liberi. Documentato (e
arricchito in questa edizione) di molteplici fonti figurative. Con
una bibliografia, bisogna dire, quasi completamente tedesca, francese e inglese
– così è anche della “bibliografia negativa”, o aggiuntiva, delle letture
successive cioè ala stesura del libro, che Sandro Gerbi, rieditando l’opera del
padre, allega.
Una storia
del peccato è di per sé affascinante. Cioè delle concezioni del peccato. Tanto
più se il peccato gira attorno alla sessualità, divenendo allora anche
sconcertante. Un’ipotesi sacrilega, e tuttavia radicata e ritornante, Gerbi
traccia centinaia di “fonti”. Fino a farne una storia anche della sessualità,
divenuta inafferrabile tra Filone e sant’Agostino, cioè nel sincretismo
ellenistico, poco riflessivo. E una storia alla fine di stupidità, rileggendo
le “argomentazioni” in fila, oltre che di eresia – che il peccato sia la
generazione… (credo quia absurdum?). La disamina di Gerbi è rispettosa,
come si conviene a un dogma religioso, ma non sempre può trattenere il riso,
neppure lui. Il serpente ha varie fogge e nature, che non staremo a ripetere.
Il frutto proibito, più comunemente una mela, è talvolta banana, fico, e
ghianda.
Gerbi ne
rileva sempre il fondo eretico. E la riporta a innesti molteplici, più curiosi
che riflessivi (p.75): “Il «beverlandismo» nasce dal connubio di teorie
elleniche con miti orientali”. Miti che a loro volta, sappiamo da Lévi-Strauss,
si formano per incrostazioni, anche casuali o avversative. E anche
successivamente sempre all’incrocio, “di “un quid mistico
avvinto in lotta con un quid tenero e sensuale” (p.115):
l’Alessandria di Filone, il “cristianesimo africano e italiano del IV secolo2,
i Càtari,”l’eresia d’Oriente nella Chiesa d’Occidente”, le foci del Reno,
quando il Rinascimento invade il Settentrione, l’Olanda di Erasmo, tra teologia
e ragione, scientifica e filosofica. Gli incroci si direbbe che accentuano
l’intraprendenza, l’ottimismo, e invece in questo caso la penitenza, i sensi di
colpa.
Antonello
Gerbi, Il peccato di Adamo e Eva, Adelphi, pp. 273, ill., €28
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