“Tra il 1896 e il 1992, con l’eccezione degli anni Trenta, l’Italia si è sviluppata più rapidamente dei paesi europei che a fine Ottocento avevano un reddito superiore al suo, realizzando nel gergo degli economisti una ‘convergenza incondizionata’. In questo arco di tempo il benessere degli italiani è cresciuto a dismisura in tutte le sue dimensioni. Perché l’Italia ha interrotto, in modo quasi improvviso, il percorso secolare di convergenza iniziato negli anni Novanta dell’Ottocento e realizzato con tanto successo soprattutto nel mezzo secolo postbellico?
“Sono domande che non tollerano risposte banali, costruite su pre-comprensioni ideologiche o culturali. A conclusione di una ricerca durata due anni alla quale hanno partecipato alcuni tra i migliori studiosi mondiali di storia economica, chi ha contribuito a questa ricerca non ha la presunzione di rispondere in modo soddisfacente. Il lavoro fatto si sostanzia di un gran numero di studi empirici che aggiungono molti nuovi dati e qualche nuova interpretazione alle conoscenze sin qui acquisite. Si tratta, soprattutto, di contributi su aspetti importanti dello sviluppo economico italiano che potranno, nel tempo e speriamo anche con il contributo dei colleghi stranieri, affinare risposte a queste domande, certamente destinate a sollecitare gli studiosi per molti anni a venire. Il lavoro fatto consente, tuttavia, di abbozzare una prima risposta”.
La risposta è questa. Dopo una “lunga rincorsa”, e malgrado il rallentamento degli anni 1970, l’Italia aveva agganciato i paesi ricchi: “Nel 1992 il pil per abitante italiano era pari a quello di Germania e Regno Unito”. Poi tutto crollò: produttività in soddisfacente, produzione in calo, deviata verso le produzioni leggere, a basso valore aggiunto, scomparsa della grande impresa. È la conclusione di Gianni Toniolo, economista alla Duke University, che ha curato questa ricerca della Banca d’Italia in veste di consulente.
Piccolo è brutto
I germi erano stati seminati prima. Nei termini di Toniolo: “A partire dall’‘autunno caldo’ e per tutti i difficili anni Settanta, si adottarono in rapida successione misure estemporanee di welfare e di indiscriminati sussidi alle imprese. Crebbe il peso delle micro-decisioni politiche nei processi di allocazione delle risorse, anche nell’impresa pubblica. L’inflazione a due cifre fu più elevata e durò più a lungo che nei paesi concorrenti. Riforme indispensabili delle quali si sentiva sempre più la necessità furono indefinitamente rinviate. La qualità della scuola peggiorò. I tempi della giustizia civile e amministrativa si allungarono. All’indebolimento dell’impresa pubblica si accompagnarono segni crescenti di debolezza della grande impresa privata. Il mercato del lavoro divenne più rigido”.
“Piccolo è bello” è uno dei tanti slogan con cui si copre la superficialità italiana. Ma l’effetto è disastroso. Toniolo: “Nel 2008 la dimensione media delle imprese italiane era la metà di quella media dei cinque maggiori paesi dell’Unione Europea. La grande impresa è la principale produttrice di ricerca applicata, con effetti a cascata sul resto dell’economia, è veicolo di investimenti diretti dall’estero, a loro volta tramite privilegiato del trasferimento di tecnologie. La diminuzione della capacità complessiva di ricerca e sviluppo, quando la produzione e adozione rapida di nuove tecniche è diventata più importante che per il passato,
non può che avere diminuito la capacità sociale di crescita del paese”.
La sopravvalutazione del cambio
Gli altri fattori dannosi sono noti in abbondanza: la spesa e il debito pubblici troppo elevati. Ma la Banca d’Italia ne ha, a sorpresa, uno non scontato – un altro dopo la liquidazione della grande impresa: la sopravvalutazione del cambio. Che portò alla svalutazione catastrofica della lira nel 1992. E alla sua sopravvalutazione, altrettanto catastrofica, nell’euro dieci anni dopo. Entrambi errori, è da aggiungere, della Banca d’Italia di Ciampi – Toniolo non lo dice, ma si sa.
Alla Banca d’Italia precipuamente si deve peraltro una serie di grandi riforme negli anni 1990 (ma a partire dal referendum sulla contingenza nel 1984, che Toniolo trascura), “in materia bancaria e finanziaria, societaria, di lavoro, di concorrenza”. Inoltre, fu attuato il più ambizioso programma di privatizzazioni europeo dopo quello britannico. In un decennio (1994-2004) il debito pubblico fu ridotto di ventidue punti percentuali”. Non è bastato.
Perché la causa principale è un’altra, che si continua a tacere: l’Italia fu bloccata non dalla contestazione (l’“autunno caldo”) né dal terrorismo, ma dal parlamentarismo. Dalla pratica di governare con intese di corridoio, per compromessi sempre riduttivi, e quasi sempre inapplicati. Un proverbio sudamericano dice che il paese va avanti di notte, quando il governo dorme. Ma un’economia avanzata, in un mercato concorrenziale e regolato, non vive senza governo.
Gianni Toniolo (Banca d’Italia), L’Italia e l’economia mondiale 1861-2011, online
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