Il
progetto di trasformare la mafia in “forza del bene”, e insieme in una società
per azioni, appartiene originariamente a MacAllermy e Fildes, due puritani
americani inventati da Maurice Leblanc, l’autore di Arsenio Lupin. Lo
progettano in “Arsenio Lupin contro la mafia” (tit. originario “Les milliards
d’Arsène Lupin”).
I due
nomi, MaF, fanno quasi la parola – una parodia del tutto è mafia: un tempo
della mafia si rideva.
“Viviamo
dentro un cupo pessimismo”, lamenta Giangiacomo Schiavi sul “Corriere della
sera” lunedì. Con un presidente che incita a muoversi, Napolitano, e una città
ferma, Milano. Solo che Napolitano, di nome e di fatto, non può altro che
incitare: parole. Mentre l’Italia dipende da Milano, la città cupa e ferma. Non
per altro, perché Milano se n’è impossessata, coi suoi tribunali, giornali,
politicanti, e le tiene stretto il morso. Mettere da parte Milano, no?
“Che
camurria starsi a contare gli anni!”, lamenta Montalbano chiudendo il telefono
all’inizio di “Una voce di notte”, quando la fidanzata di primo mattina si fa
viva giuliva per celebrare il compleanno del commissario. Che non gradisce
invecchiare. Si può dargli torto? È uno dei tanti segni dell’inferiorità
culturale del Sud: milioni, diecine di milioni, di meridionali si assoggettano
a noiosissime feste di compleanno, iettatorie – malevole al fondo. Quando la
festa, se uno se le voleva fare, o gliela volevano fare, era tanto più festosa
col santo, per esempio. O così, per un ghiribizzo.
Ida
Magli scrisse nel 2000 un libello anti-euro, “Contro l’Europa”. Introvabile
oggi, benché d’attualità. Per la triste categoria del “sudismo” che vi conia?
Come riserva di corruzione, affarismo, imbroglio. Una categoria curiosamente
autosconfessante: volendo attaccare la Germania, l’antropologa anatemizza per
una diecina di pagine il “sudismo”. Una
voce “dal sen fuggita”, l’antropologia è infetta?
L’antropologa
sfiora la verità collegando a un certo punto l’impresentabilità del Sud alla
perdita d’identità. Ma se ne ritrae subito: non le piace, benché risponda
all’assunto del suo pamphlet, l’infeudamento
alla Germania.
Il mafioso a termine
Andreotti
rimarrà famoso per molte cose, ma per una sarà insuperabile: fu mafioso a
termine. Come un qualsiasi precario. Fino al 1980, esattamente alla primavera
di quell’anno. Poi non fu più mafioso. Lo ha decretato la Corte d’Appello di
Palermo il 2 maggio 2003, presidente Salvatore Scaduti Decretandone al contempo
l’impunibilità, per prescrizione intervenuta del reato.
Una
decisione manzoniana (equanime): Andreotti era mafioso, ma non lo era.
Scaduti giunse
alla decisione, dopo essersi complimentato con se stesso per un dibattimento
“esemplare”. Elogio che estese a accusa e difesa: “In
questo doloroso e sanguinoso momento del contrasto tra potere politico e
giudiziario, voi avete dato al Paese, durante lo svolgimento di questo
processo, un esempio di serena e auspicabile dialettica processuale, se si
vuole e si crede ancora nella separazione dei poteri, soprattutto in uno Stato
che continua a ritenersi civile e ancor più geloso di una culla del diritto”.
Quindi anche un minuetto.
Fu un
precariato improprio, però, quello di Andreotti, guardando ai fatti. Fino al
1980 fu mafioso di tutte le famiglie
mafiose siciliane. Un caso eccezionale quindi. In particolare intrattenne “relazioni
amichevoli” – per Andreotti un fatto ancora più eccezionale - con i capi
Bontate e Badalamenti. Senza averne però i voti. Dopo che non fu più mafioso
divenne invece in Sicilia una potenza politica nella Sicilia, quasi più che a
Roma e in Ciociaria, col fido Lima.
Napoli.
Angelo Mastandrea lancia su “Le Monde
Diplomatique” di aprile il “modello Napoli” per il futuro dell’Europa quale
società complessa: l’informalità. Nei rapporti di lavoro. Non c’è limite al
peggio?
Analogamente qualche decennio fa veniva
teorizzato a Napoli l’abusivismo: come “architettura di necessità”. Napoli
tradita dagli intellettuali.
Elio e le Storie Tese fa anche questa colpa al “Complesso
del Primo Maggio”, a un certo punto: “Senza motivo ha un percussionista ghanese\ che è
stato ricollocato in un complesso pugliese”. Di pizzica. Ce l’ha anche Eugenio
Bennato, non da ora. Per l’inculturazione, o multiculturalismo, che arricchisce
– di accordi, cadenze, ritmi. È l’“invenzione” di Napoli degli ultimi
quarant’anni, ormai. Capossela se ne è fatta la cifra, non da buttare via.
C’è
abbondanza, nelle nature morte de Seicento, soprattutto nei quadri napoletani:
di colori e di fiori, frutta, verdure, oltre che di pesce e di carne. Non ci
sono lazzari né lazzaroni come nel lombardo Caravaggio.
A
Napoli il peggio è il nuovo, scriveva Paolo Macry nel saggio “Rappresentazioni
di una metropoli”, confluito in “Napoli in posa”, un volume Electa del 1989, a
cura di Gaetano Fiorentino e Gennaro Matacena: “Paradossalmente, è la nuova
politica ad essere (diventata) il cuore del degrado cittadino”.
Napoli
è stata liberata, ma non si è liberata.
Macry
citava vecchi calcoli: “Fra il 1872 e il 1889 – calcolerà Francesco Saverio
Nitti – l’indice della popolazione cresce da 100 a 120 mentre i generi
alimentati più diffusi calano da 100 a 93. A Napoli con l’arrivo dei piemontesi
e del regime liberale, si mangiano meno maccheroni d’un tempo, meno pesce
secco, meno carni suine, si beve meno vino, si usa meno zucchero, si consumano
minori quantità di legna da ardere” (F.S.Nitti, “La città di Napoli”, Napoli,
1902).
È
con l’unità, ricorda ancora Macry, che Napoli s’impoverisce. Negli anni 1860 a
Mark Twain sembrò “molto più alta di tre città americane sovrapposte”.
Mezzo
secolo prima Vivant Denon, “Voyage au Royaume de Naples”, ci aveva trovato più
carrozze che in ogni altra città da lui visitata. Si può anche dire che il
traffico a Napoli è sempre stato un problema.
Lo
stesso Vivant Denon era deluso: “Non c’è un bel palazzo a Napoli, il solo
possibile è quello di Gravina”. La “particolare bellezza di Napoli” gli restava
inspiegabile. Non c’è da fidarsi dei viaggiatori?
leuzzi@antiit.eu
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