mercoledì 8 maggio 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (170)

Giuseppe Leuzzi

Il progetto di trasformare la mafia in “forza del bene”, e insieme in una società per azioni, appartiene originariamente a MacAllermy e Fildes, due puritani americani inventati da Maurice Leblanc, l’autore di Arsenio Lupin. Lo progettano in “Arsenio Lupin contro la mafia” (tit. originario “Les milliards d’Arsène Lupin”).
I due nomi, MaF, fanno quasi la parola – una parodia del tutto è mafia: un tempo della mafia si rideva.

“Viviamo dentro un cupo pessimismo”, lamenta Giangiacomo Schiavi sul “Corriere della sera” lunedì. Con un presidente che incita a muoversi, Napolitano, e una città ferma, Milano. Solo che Napolitano, di nome e di fatto, non può altro che incitare: parole. Mentre l’Italia dipende da Milano, la città cupa e ferma. Non per altro, perché Milano se n’è impossessata, coi suoi tribunali, giornali, politicanti, e le tiene stretto il morso. Mettere da parte Milano, no?

“Che camurria starsi a contare gli anni!”, lamenta Montalbano chiudendo il telefono all’inizio di “Una voce di notte”, quando la fidanzata di primo mattina si fa viva giuliva per celebrare il compleanno del commissario. Che non gradisce invecchiare. Si può dargli torto? È uno dei tanti segni dell’inferiorità culturale del Sud: milioni, diecine di milioni, di meridionali si assoggettano a noiosissime feste di compleanno, iettatorie – malevole al fondo. Quando la festa, se uno se le voleva fare, o gliela volevano fare, era tanto più festosa col santo, per esempio. O così, per un ghiribizzo.

Ida Magli scrisse nel 2000 un libello anti-euro, “Contro l’Europa”. Introvabile oggi, benché d’attualità. Per la triste categoria del “sudismo” che vi conia? Come riserva di corruzione, affarismo, imbroglio. Una categoria curiosamente autosconfessante: volendo attaccare la Germania, l’antropologa anatemizza per una diecina di pagine il “sudismo”.  Una voce “dal sen fuggita”, l’antropologia è infetta?
L’antropologa sfiora la verità collegando a un certo punto l’impresentabilità del Sud alla perdita d’identità. Ma se ne ritrae subito: non le piace, benché risponda all’assunto del suo pamphlet, l’infeudamento alla Germania.

Il mafioso a termine
Andreotti rimarrà famoso per molte cose, ma per una sarà insuperabile: fu mafioso a termine. Come un qualsiasi precario. Fino al 1980, esattamente alla primavera di quell’anno. Poi non fu più mafioso. Lo ha decretato la Corte d’Appello di Palermo il 2 maggio 2003, presidente Salvatore Scaduti Decretandone al contempo l’impunibilità, per prescrizione intervenuta del reato.
Una decisione manzoniana (equanime): Andreotti era mafioso, ma non lo era.
Scaduti giunse alla decisione, dopo essersi complimentato con se stesso per un dibattimento “esemplare”. Elogio che estese a accusa e difesa: “In questo doloroso e sanguinoso momento del contrasto tra potere politico e giudiziario, voi avete dato al Paese, durante lo svolgimento di questo processo, un esempio di serena e auspicabile dialettica processuale, se si vuole e si crede ancora nella separazione dei poteri, soprattutto in uno Stato che continua a ritenersi civile e ancor più geloso di una culla del diritto”. Quindi anche un minuetto.
Fu un precariato improprio, però, quello di Andreotti, guardando ai fatti. Fino al 1980 fu mafioso di tutte le famiglie mafiose siciliane. Un caso eccezionale quindi. In particolare intrattenne “relazioni amichevoli” – per Andreotti un fatto ancora più eccezionale - con i capi Bontate e Badalamenti. Senza averne però i voti. Dopo che non fu più mafioso divenne invece in Sicilia una potenza politica nella Sicilia, quasi più che a Roma e in Ciociaria, col fido Lima.

Napoli.
Angelo Mastandrea lancia su “Le Monde Diplomatique” di aprile il “modello Napoli” per il futuro dell’Europa quale società complessa: l’informalità. Nei rapporti di lavoro. Non c’è limite al peggio?
Analogamente qualche decennio fa veniva teorizzato a Napoli l’abusivismo: come “architettura di necessità”. Napoli tradita dagli intellettuali.

Elio e le Storie Tese fa anche questa colpa al “Complesso del Primo Maggio”, a un certo punto: “Senza motivo ha un percussionista ghanese\ che è stato ricollocato in un complesso pugliese”. Di pizzica. Ce l’ha anche Eugenio Bennato, non da ora. Per l’inculturazione, o multiculturalismo, che arricchisce – di accordi, cadenze, ritmi. È l’“invenzione” di Napoli degli ultimi quarant’anni, ormai. Capossela se ne è fatta la cifra, non da buttare via.

C’è abbondanza, nelle nature morte de Seicento, soprattutto nei quadri napoletani: di colori e di fiori, frutta, verdure, oltre che di pesce e di carne. Non ci sono lazzari né lazzaroni come nel lombardo Caravaggio.

A Napoli il peggio è il nuovo, scriveva Paolo Macry nel saggio “Rappresentazioni di una metropoli”, confluito in “Napoli in posa”, un volume Electa del 1989, a cura di Gaetano Fiorentino e Gennaro Matacena: “Paradossalmente, è la nuova politica ad essere (diventata) il cuore del degrado cittadino”.
Napoli è stata liberata, ma non si è liberata.

Macry citava vecchi calcoli: “Fra il 1872 e il 1889 – calcolerà Francesco Saverio Nitti – l’indice della popolazione cresce da 100 a 120 mentre i generi alimentati più diffusi calano da 100 a 93. A Napoli con l’arrivo dei piemontesi e del regime liberale, si mangiano meno maccheroni d’un tempo, meno pesce secco, meno carni suine, si beve meno vino, si usa meno zucchero, si consumano minori quantità di legna da ardere” (F.S.Nitti, “La città di Napoli”, Napoli, 1902).
È con l’unità, ricorda ancora Macry, che Napoli s’impoverisce. Negli anni 1860 a Mark Twain sembrò “molto più alta di tre città americane sovrapposte”.

Mezzo secolo prima Vivant Denon, “Voyage au Royaume de Naples”, ci aveva trovato più carrozze che in ogni altra città da lui visitata. Si può anche dire che il traffico a Napoli è sempre stato un problema.

Lo stesso Vivant Denon era deluso: “Non c’è un bel palazzo a Napoli, il solo possibile è quello di Gravina”. La “particolare bellezza di Napoli” gli restava inspiegabile. Non c’è da fidarsi dei viaggiatori?

leuzzi@antiit.eu


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