Qui è riflessa la delusione per i due fenomeni di Resistenza a cui la giovane filosofa aveva voluto partecipare di persona: quella di Londra tra i gollisti, dopo la tragica “liquidazione” degli anarchici a Barcellona. Scrive queste note a Londra mentre si sta lasciando morire, forse proprio per questo: temeva che il movimento, “una rivolta sgorgata dal fondo di alcune anime fedeli”, di cui De Gaulle era il “simbolo”, diventasse un partito di tipo fascista. Sballottata tra le divisioni, del generale De Gaulle contro l’ammiraglio Giraud, e del fronte esterno rispetto a quello interno, teme la degenerazione della Resistenza stessa come una forma di dittatura. Cosciente, nelle lettere, di essere per questo “tenuta per pazza”. Ma non per avere una concezione utopica della Resistenza: anche in politica Simone Weil è la mistica più pragmatica. I suoi due capi-ufficio al Commissariato all’Interno presso il quale era distaccata a Londra, André Philip e Louis Closon, ne condividevano i timori: “L’organizzazione gerarchica dei movimenti e la vita clandestina”, scriveva Colson al ritorno a Londra da una missione di collegamento in Francia, a Philip a Algeri da Giraud, “fanno di queste organizzazioni strumenti politici nelle mani di quasi-dittatori”.
È il testo più edito di Simone Weil in Italia, ma stranamente senza mai affrontarne il nucleo centrale. Cominciò Franco Ferrarotti nel 1951, quando di Simone Weil non era tradotto praticamente nulla, pubblicandolo come “Appunti” su “Comunità”, la rivista di Adriano Olivetti. L’anno prima il testo era uscito, intitolato “Nota”, sulla rivista francese “La Table Ronde”, nel numero di febbraio 1950, senza commento, ma spiegando che la “giovane filosofa”, già “conosciuta nell’estrema sinistra”, si era aperta “a un pubblico più vasto” con la pubblicazione postuma di “La pesantezza e la grazia” e di “La prima radice”. “Comunità” non nomina neanch’essa il partito Comunista. “Il moderno partito di massa”, spiega Ferrarotti, “si è a poco a poco ridotto ad apparato, diventando attraverso un progressivo irrigidimento e una sorta di militarizzazione una macchina organizzativa capace di esercitare una pressione enorme sul pensiero e gli orientamenti dei singoli iscritti di base, dei «militanti»”. Un identikit senza nome, anzi allargato al partito politico in se. Ferrarotti continua evidenziando “la denuncia del settarismo ideologico e dell’esclusivismo totalitario propri di tutti i partiti…”.
Nel giugno 1988 la “Nota” fu ripresa nel numero 6 del “Diario di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli. Ritradotto da Giancarlo Gaeta, futuro weilologo, come testo inedito in Italia, tratto dagli “Écrits de Londres” pubblicati nel 1957 da Gallimard. Senza note. Ne “La prima radice”, di cui questo manifesto è uno degli appunti preparatori, dirà in generale: “Le collettività non pensano”, ma intendeva che il pensiero non può essere che individuale, non intendeva criticare l’attività sindacale dei suoi operai, o sua propria nelle scuole dove ha insegnato, né l’attività politica.
La riedizione cinque anni fa di Castelvecchi lo fa invece correttamente spiegare a André Breton, vecchio comunista, di cui esuma un articolo pubblicato nel 1945 o 1946 da “Combat”, il giornale di Camus. “Combat” fu una delle poche voci che il sovietismo, imperante in Francia per un ventennio dopo la guerra, non sovrastò. E con più durezza al filosofo Alain, maestro di S.Weil, in una nota conclusiva: “Di cosa si tratta? Di questo: che il partito comunista si è incaricato di portare alla perfezione la decadenza e la nullità di un partito”. Un’eresia evidentemente, se tuttora nelle presentazioni della “Nota” che si leggono non se ne fa menzione – di cosa si tratta? ma di abolire i partiti…
Simone Weil sa che “la reazione è in agguato”, ma svolge un assunto semplice. La democrazia, “il nostro ideale repubblicano”, deriva dal “Contratto sociale” di Rousseau, dalla nozione di “volontà generale”. Individuarla non è facile, essendo lo spirito di verità e giustizia. “Rousseau pensava che nella maggioranza dei casi un volere comune a tutto un popolo è conforme nei fatti alla giustizia, per via della mutua neutralizzazione e compensazione delle passioni particolari”. Ma questo non basta naturalmente, nessuno giurerebbe sui plebisciti. Rousseau stesso pone condizioni alla volontà generale: “La prima è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di una delle sue volontà e la esprime non sia presente alcuna specie di passione collettiva”. Perché “la passione collettiva è un impulso al crimine e alla menzogna”. Indistintamente.
Le passioni delle finzioni
Qui, è vero, la filosofa non fa distinzioni tra liberali, repubblicani, socialisti e comunisti. La passione politica è totalitaria e “il totalitarismo è menzogna”, confonde i termini: “Quante volte, in Germania, nel 1932, un comunista e un nazista, parlando per la strada, devono essere stati colti da vertigini mentali constatando che erano d’accordo su ogni punto!” Il più totalitario di tutti è però il partito Comunista, che ha portato a perfezione le punizioni per l’indocilità: “Il sistema dei partiti comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi tutto: carriere, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla perfezione”.
Ma non può essere, non è, un rifiuto della passione politica. Non in Simone Weil, che non visse un solo istante non appassionata. Il rifiuto è della passione politica asservita, a fini di parte, sepure solo ideologici. Il “radicamento” della “Nota” nei timori a Londra per le divisioni nella Resistenza è attestato d’acchito dalla stessa Weil. Che chiude il ragionamento perentoria in apertura: “Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva”. Dopodiché va avanti sillogisticamente. Un procedimento, il sillogismo, in cui la conclusione corrobora (invera) le premesse, inconsueto per S.Weil. Segno che nel 1943, l’anno in cui scrisse il saggio, a Londra, dov’era con De Gaulle, trovava motivo di preoccuparsi.
Andrea Simoncini, riproponendo la “Nota”, dice che non c’è da preoccuparsi, di questo che chiama “sillogismo mortale”, e che sintetizza così: “La democrazia contemporanea è fondata sui partiti politici; i partiti politici stanno morendo; dunque, la democrazia sta morendo”. Non può essere così, spiega, perché la democrazia non è tanto la “procedura di decisione a maggioranza” (che liquida come “sinistramente simile alla «legge del più forte»”) quanto il “bene comune”. Tommaso d’Aquino, cioè. Che nessuno contesta. E Rousseau, che invece non solo Simone Weil contesta, poiché tratta del modo come il bene comune si realizza nella pratica.
Se Simone Weil oggi non fosse una deputata del Pd, come le filosofe ambiscono, sicuramente ci direbbe molte cose sulla non rappresentatività degli attuali partiti, 5 Stelle compreso. Sui media e i new media. Sull’opinione pubblica, giustizia compresa. E sulla sua “gestione”. Non troverebbe per esempio crisi di rappresentatività in Germania, o negli Usa, o in Gran Bretagna - e probabilmente, a una sommatoria di più e di meno, neppure in Cina. Più che i mezzi difettano le menti: il lavaggio del cervello quando è totale, le passioni avendo spento, deviandole sulle finzioni.
Simone Weil, Senza partito, Feltrinelli-Vita, pp. 90, euro 8
Nessun commento:
Posta un commento