Ma la
discussione si fa su basi false. Non innocenti, comunque a fini di parte, ideologizzati.
Le sue basi sono nella Trilaterale, il consesso di uomini e enti del
capitalismo promosso nel 1973 da Nelson Rockefeller, uomo politico,
repubblicano liberale, della famiglia dei petrolieri. Che pose al centro del
dibattito le forme della rappresentanze nelle società industriali avanzate. In
una col parallelo, e affine, dibattito sui limiti alla crescita del Club di
Roma, animato da Aurelio Peccei, ex manager della fiat in Argentina, ma
centrato sulle proiezioni di Leontief e dell’incipiente industria Usa della
conservazione.
La
Trilaterale era una reazione alla contestazione (da Hannah Arendt già studiata nella
forma della “disobbedienza civile”), che aveva fatto “perdere” la guerra del
Vietnam, e in previsione del multicentrismo, di quella che sarà chiamata la globalizzazione.
“La crisi della democrazia” fu nel 1975 il primo rapporto della Trilaterale,
redatto dal direttore Zbgniew Brzezinsky, centrato sulla “definizione della «governabilità»”.
Brzezinsky,
futuro segretario di Stato, portava il “Federalist”
a supporto, con John Stuart Mill e Ralph Dahrendorf, per evitare quella che
chiamava la “democrazia anomica”, al meglio un “consenso senza scopo”. Il
teorico del raggruppamento era Samuel Huntignton, famoso all’epoca per
vaticinare il conflitto di civiltà, tra l’Occidente (Usa-Europa) e il resto del
mondo. La Trilateral dubitava che le democrazie fosse
governabili, insidiate dall’anomia. E ipotizzava che bisognasse “limitare” la democrazia, che gli affari
sarebbero andati meglio per tutti se lavoratori, neri e poveri avessero contato
meno. Puro Orwell, “1984”: “L’aumento
della ricchezza minaccia le gerarchie mondiali”.
La democrazia è in crisi in
Italia
La
“crisi della democrazia” viene dunque da lontano, e ha radici conservatrici. È
anche limitata e non universale. In Europa solo l’Italia se ne può dire
affetta. Altrove le costituzioni e le rappresentanze politiche reggono, e
prendono anzi decisioni importanti. Per esempio nella Gran Bretagna di Margaret
Thatcher, e poi in quella di Blair, che si sottostima, o nella Germania di Schröder. La democrazia funziona
in tutta Europa, e quindi funziona, poiché stiamo parlando di un mondo ancora
chiuso seppure globalizzato: le democrazie saranno alcune diecine nel mondo, e
per due terzi sono europee. La Trilaterale ha del resto cessato presto le sue
riunioni, avendo gli Stati Uniti dopo nemmeno dieci anni reintegrato la marcia
del consenso nazionale e dell’egemonia senza contestazioni. Fino alla
formidabile “prova democratica” dell’elezione di Obama nel 2008.
La crisi è un’anomalia italiana, dunque.
E ha cause precise. Che però non si vogliono vedere, per primi gli studiosi di
scienza politica. Si dice che la causa è Berlusconi. Ma Berlusconi è un effetto
e non la causa. Lo è sempre stato ma nelle elezioni del 24 febbraio in modo
incontestabile. Già prossimo al ritiro, se fosse stato al Giro d’Italia, fu
portato vincente al traguardo da quella che è la vera causa della crisi
italiana: il postcomunismo.
L’Italia aveva un enorme partito Comunista, molto
più imponente e importante della sua pur vasta base elettorale, e lo mantiene,
nelle forme della faziosità, dell’intolleranza, dell’odio, dell’oltranzismo. Una
orwelliana “politica dell’odio” che ha avvelenato senza ipocrisie le votazioni
presidenziali.Col sostegno infetto di una giustizia ancora fascista, di toghe e
ermellini, al di sopra delle leggi. E con quello truffaldino dei media, la
cosiddetta opinione pubblica, che al meglio è autoreferente: la Rai, che è il
nodo del traffico d’influenze, e la
grande editoria, di Mediobanca, Bazoli, Fiat, Caltagirone, Confindustria e,
curiosamente, lo stesso Berlusconi (Mondadori, Mediaset). All’insegna del
“tutto pur di non essere governati”: l’Italia come zona franca, di bande e
banditi.
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