Qui Aragon è giovane alla conquista di Parigi. L’originale
significa specificamente contadino, Paolo Caruso ne ha però ben tradotto il
senso con “paesano”, provinciale. Reduce dagli smanettamenti adolescenziali con tipi pericolosi,
Montherlant, Drieu (“Guy”, “Aurélien” di
altre sue narrazioni) e E.E.Cummings. Poi s’innamorerà del Partito, nelle vesti
della musa venuta da Mosca. Sarà il “fou
d’Elsa” - ma già ambiguo “con d’Irène”,
con un apertissimo infine “il n’y a pas d’amour heureux”, non c’è amore
felice, il verso per cui è celebre. “Il paesano” è il libro di come uno
scrittore, una vita e una storia avrebbero potuto essere, non fosse stato per l’ideologia
e l’opportunismo. Un’esistenza nella quale l’idea di piacere trova poco posto,
riempita dal piacere stesso, “giovane di ogni bellezza” che a lungo manterrà
“il sentimento del meraviglioso quotidiano”, da tutto “distratto, eccetto che
dalla distrazione”.
La
vita da un certo punto di vista Aragon non la sbagliò: il “figlio della nonna”,
rifiutato dai genitori, si rifece nel Partito con gli onori e una sontuosa
dimora con annessa proprietà a Saint-Arnoult, che Elsa governava. Ma era una
maschera. A maggio del ’68 si lasciava così presentare da Cohn-Bendit:
“Silenzio compagni, parla un traditore”. Detesto la curiosità, aggiungerà in “Mentir-vrai”,
che non si traduce, non mi diverte, detesto la stupidità. Si detestava, forse,
infine. Ma non è solo, censure e autocensure hanno reso malagevole al realista
contemporaneo, al testimone, di dire la verità. Lui lo sosterrà, sempre
convinto: “I realisti dell’avvenire dovranno sempre più mentire per dire la
verità”. Ci vuole disonestà per il genio, è il limite della virtù.
Aragon, Il paesano di Parigi, Est,
pp. 200 € 2,79 (remainders)
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