I precedenti racconti, che si
presentavano come esercizi di bravura, si rileggono trasfigurati. In “Stai
serena”, il nuovo racconto lungo che fa da specchio a quello iniziale del titolo, del
cornuto comprensivo, la fedifraga si libera filosofando la propria dipendenza -
assoggettata a dimenarsi di bocca e di chiappe mentre l’amante se ne sta
disteso, averla apostrofata “puttana” o “troia” è tutto. I tre racconti aggiunti
esprimono il grottesco, prima soffocato dallo sdegno (moralismo) o
politicamente corretto. In modo subliminale, con costante dominio della misura (linguaggio).
Da sottile (arguto) anatomista del parlato, un tempo si sarebbe detto del
vissuto. Che come tutto in Italia è mobile e immutabile.
“Noi che parliamo da soli” è l’ultimo dei
tre racconti che rinnova la raccolta. L’Altare della Patria a piazza Venezia a
Roma, che Pascale sceglie a pietra d’inciampo dei vani soliloqui, era stato già
scelto da Carlo Dossi un secolo esatto prima, un altro inquirente dei linguaggi
aulici che sommergono l’italiano. Pascale è altrettanto tosto ma è lieve
(misurato). In esso si fa rimproverare da “Vincenzo Postiglione”, il
personaggio suo alter ego, “il
grottesco italiano”, come quello che preferisce “la maschera alla persona, la
situazione estrema a quella quotidiana,… il blocco compatto alla sfumatura”. Vuole
dirci che ha fatto il contrario, e l’ha fatto – uscendo anche, un po’, dalla metaletteratura
(dei maestri di scuola? delle scuole di scrittura? da dove origina l’infezione?).
Antonio Pascale, La manutenzione degli affetti, nuova ed., Einaudi, pp. 183 € 10
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