Paul Dirac, il fisico, aveva già
coniato la “bellezza matematica”: un teorema bello è vero – “una teoria
includente una bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e
corretta di una sgradevole che venga confermata dai dati sperimentali”. Simone
Weil parte dal semplice: qual è la differenza tra un mucchio di pietre e un
tempio, seppure in rovina? L’idea del tempio, l’architettura. Lo stesso per la
musica, che come l’architettura è “inafferrabile” (inspiegabile). La bellezza è
cultura.
“Il bene”, invece, “è più difficile
da cogliere, come se non smettesse di sfuggire”. Il nodo è la “moralità”. Da
considerasi forse come “conformità con una regola”, più che con un fine
preesistente. Ma allora insoddisfacente: “Questa morale è alla portata dei
cani”. Un saggio di Roberto Revello sottolinea, nell’esperienza futura di
Simone Weil, la “liberazione” attraverso il lavoro - fatica fisica e
applicazione. Un esito pratico alla moralità. Ma c’è già in questi primi
scritti: il vero bene è il lavoro, atto di volontà. O: “Il bene non è una
condizione di non-peccato, ma una perpetua azione”.
Simone Weil, Il bello e il bene, Mimesis, pp.
52 € 4,90
Nessun commento:
Posta un commento