Giustizia - Dürrenmatt, che se ne è sempre appassionato (“Il sospetto”, “Giustizia”, “Il giudice e il suo boia”, etc.), le fa usare gli stessi metodi del criminale che essa condanna. Ma con uno slittamento non marginale, del giudice facendo uno sbirro. Questo a Dürrenmatt riesce col lettore, ma dei suoi racconti non si fanno film: non si possono fare.
In
Italia la cosa è impossibile in toto,
mancando l’abilità di Dürrenmatt: non nei film ma nemmeno nei libri. Perché il
giudice inquirente è identificato col giudicante, e quindi non ci sarebbe
racconto, ma una caccia all’uomo. Il “risolutore” italiano, il detective, deve
anzi essere all’opposto marginale, “fuori del sistema”, anche quando è un
commissario di polizia come Montalbano: uno in punizione, o richiamato, o lì
per caso, senza contare le nonne, i vicini curiosi, i giocatori di briscola al
bar.
Anche in
Inghilterra, a pensarci, il risolutore è sempre eccentrico. È istituzionale in
Francia e negli Usa, dove la pubblica accusa è politica, e quindi dichiaratamente
di parte: inquisisce chi ha un ruolo ufficiale. Anche perché può perdere,
spesso vince la difesa. Cosa che in Italia è impossibile.
Joyce – Potrebbe essere
la chiave di “Finnegans Wake” il rapporto con Lucia. Lucia Joyce era psicotica, con
James parlavano in una lingua chiusa a loro due. Lo fa notare Carson McCullers,
che di mondi proibiti se n’intende. All’interramento di James Lucia dice: “Ora
è sepolto nella terra, e sente tutto quello che si dice. Furbo, no?”
Senza ombra d’incesto, è l’amore filiale, una forma di esclusione, e in questo
caso un dolore, non un desiderio proibito.
I genealogisti derivano Joyce dal francese joyeux.
un auspicio, nomen omen. In età matura si portava in tasca il
ritratto secentesco di un Duc de Joyeux, e chiedeva agli amici se non ci vedevano
la somiglianza. Ma si divertiva anche a dirsi James Joyless, o Jocax o Joker. E
Joycity. Non Jokes, che è il suo proprio? Perché sono jokes, giochi, gnocchi, gnoccoli, quelli del severo Jocax. O Gis,
come Gesù è detto in Amleto, atto IV,
scena V, Ofelia: “Tomorrow is st. Valentine Day” “By Gis and by...”? E joyciano, professione così diffusa, non sarà joysuino - o joysuita?
Per Pound era meglio Job, “che suona meglio in
aramaico”, gli scriveva: “Joyce è un palese errore”, ma “può darsi che venga
alla luce una forma intermedia Jobce: la vostra linea di discendenza dal
patriarca è indiscutibile”. Oppure Joice, echt Joyce, puro succo, juice.
Di che? Dei testicoli: il jissum, sibilo dell’eiaculazione, che
via jazz riporta a Ji-i-sas, Je-e-e-sus.
“Gesù malinconico” e “Gesù curvo” era per Sylvia
Beach.
Oculatamente il Consiglio Superiore della
Pubblica Istruzione gli impedì nel 1911 di “trasferirsi nel Paese la cui lingua
usa ogni giorno, avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi
figli Giorgio e Lucia”, quella dell’amato Denti Alligator, come scrisse nella
domanda per un posto di supplente. Benché cultore di Dante, Joyce non poteva
essere di lingua italiana. Oltre che della cittadinanza, l’Italia è gelosa pure
della lingua.
Nobel – Un’ambizione che l’autore paga caro. Ne è la consacrazione. Ma al
culmine di una serie di manovre non onorevoli. Finisce per confermare lo
scrittore uomo solitario per eccellenza. E indifeso, perfino da se stesso. Le
carte pubblicate di Per Hallstrom (riprese dal “Times Literary Supplement” del
10 maggio), il patrocinatore di Hemingway, mostrano lo scrittore soprattutto depresso
sulla propria condizione di solitudine: la scrittura è solitaria.
Solitaria è anche, malgrado tutto, le
interviste, i premi, le conferenze, etc., la proiezione sociale dello scrittore.
Non della critica, che sempre in qualche modo si istituzionalizza.
Note – Sono invalse nei
saggi con un fine preciso, bibliografico – i vecchi “crediti”. Ma l’uso è
esteso, largamente, specie nella saggistica storica e letteraria, per “portare
avanti” separandoli due discorsi, quello scientifico-tecnico, argomentato,
sistematizzato, e quello aneddotico, insorgente, casuale, più narrativo che
logico. Anche se spesso è più e meglio significativo.
Stendhal – Non si fa mai
nome di Walter Scott a proposito dei suoi romanzi, che invece c’entra tutto –
si cita invece Scott a proposito di Manzoni, col quale non c’entra nulla, a
parte le chiacchiere.
Verdi – Il miglior
libro per il centenario, uscito un anno e mezzo fa a Londra, “Verdi and\or Wagner”,
di Peter Conrad, non è stato tradotto e non si cita nemmeno. Nonché pieno di
apprezzamenti e anche di qualche verità su Verdi.
Wagner – In forma concertistica, senza scena,
è anche più “intollerabile”, Preludi e interludi interminabili, scene
insensate. “L’oro del Reno” ne è pieno, ma anche ”Rienzi”, o “Parsifal”, o “Tristano
e Isotta”. Aggressivo anche quando non lo è, nel sentimentalismo più diluito, per
esempio, per l’illusione che impone dell’illimitato. Thomas Mann gli
rimproverava l’assenza del “pathos della distanza”, nel saggio del 1933, “Tristezze
e grandezza di Richard Wagner”. Voleva togliere il respiro all’ascoltatore e ci
riesce, con la morte a ogni angolo, e ogni sorta di violenza: furto, rapimento,
assassinio, disonestà, adulterio, incesto, mutilazioni e automutilazioni, sfide
alle divinità e a ogni ragione. Un sottofondo intreccia del male. L’amore è torbido, inutile – la lealtà,
l’onore. Una sorta di architettura, l’opera totale, dello “spoglio”, il
denudamento o l’inaridimento. Lo stesso sacrificio non arricchisce. Con l’apologia
costante della morte, da parte di un vitalista ingombrante. Perfino profittatore,
della buona fede altrui - del re e degli altri finanziatori, delle donne, dei
maestri suoi esecutori.
Il progetto è di sopraffazione. Anche quello teatrale e musicale –
la lunghezza, la ripetizione. L’ascoltatore, perlomeno, è sempre portato a
pensarlo. Debussy, Klemperer, lo stesso Thomas Mann, numerosi musicologi, lo risentono
come un’ossessione, una possessione.
letterautore@antiit.eu
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