È quella che Bernard Manin, “Principi
del governo rappresentativo”, ha chiamato “democrazia del pubblico”. Che voleva
dire una cosa ben precisa – Manin non è un giornalista, è filosofo politico,
direttore della Ehess, una delle Grandi Scuole francesi, École des hautes Études
en Sciences Sociales, e professore all’università di New York: il corto
circuito nel rapporto di rappresentanza operato con l’image building del Capo. O, in termini sociologici, il marketing politico
ridotto all’immagine del leader, che si realizza nel rapporto diretto con i
media. Quindi senza più il filtro dei corpi intermedi, politici, economici,
sociali, e senza più un rapporto diretto con l’elettorato (ridotto a voto di
scambio, corruzione, conflitto d’interessi). Se non attraverso la cosidetta
opinione pubblica. A sua volta ridotta al gossip,
ex scoop, all’intervista, al fotoservizio,
al talk show, ai sondaggi pilotati,
ai call center.
Nulla di cui scandalizzarsi, concludeva
Manin – che teorizzava la “democrazia del pubblico” prima di Berlusconi. Le
identità collettive si sono indebolite e sono quindi meno organizzabili. E d’altra
parte la “rappresentanza”, canone della democrazia, è stata fin dall’origine
del parlamentarismo, nel Seicento, “personalizzata”. Non c’è un’età dell’oro a
cui confrontarsi, in cui la democrazia ha funzionato senza filtri, deviazioni, E
d’altra parte nella “democrazia del pubblico” i partiti non scompaiono: continuano
a mediare la società organizzandosi attorno a un Capo. Una “ristrutturazione”
voluta anche dai processi decisionali attuali, che privilegiano il governo: la
tempestività sulla riflessione, la premiership o il presidenzialismo sull’assemblearismo.
Lo stesso Montesquieu va rivisto, salvandone non tanto l’antistorico equilibrio
dei “tre” poteri, ma il concetto di equilibrio, o dei bilanciamenti.
Niente di drammatico, se non che, in
Italia, non la “democrazia del pubblico” si è instaurata, ma una violenta
faziosità. Con una rottura forte, costante, apparentemente ineliminabile, dell’equilibrio
dei poteri. A favore di poteri non sindacabili, la giustizia e i media. L’aura
del potere non è saltata in vista della “pubblicità”, della openness, ma al contrario del segreto e
delle consorterie. Si decide di fotografare a chilometri di distanza gli ospiti
di Berlusconi mentre fanno la doccia e lo si fa, come si decide di non fotografare
Grillo, che invece fa i suoi comizi in piazza, per ore, perché Grillo non
vuole.
Tutto confluisce, anche qui, nella politica-immagine.
Ma come tritacarne, senza criterio e senza bussola. C’è solo l’antiberlusconismo,
ma non vuol dire niente e non basta. Landini, leader della Fiom, un
sindacalista con poco seguito nel suo stesso sindacato, diventa interlocutore e
capopartito in quanto faccia “simpatica”, cioè telegenica – come gli occhi
chiari Ghedini e Belpietro, berlusconiani.
E, a livello decisionale, nel
plebiscitarismo. Doppiamente una falsa soluzione: schiaccia il pluralismo senza
facilitare le decisioni – il governo. Si veda dove l’elezione diretta è stata
adottata ormai da quattro o cinque elezioni: i sindaci, come i presidenti di provincia
e di regione, non hanno alcuna autorevolezza e non esercitano alcuna autorità.
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