martedì 21 maggio 2013

Plebiscitarismo senza autorità

Il “deficit di rappresentanza” si può anche dire epocale. Non soltanto italiano, come si è argomentato qualche giorno fa, ma del’epoca della “pubblicizzazione”, della comunicazione libera. Non è saltata la democrazia, ma gli arcana imperii. L’aura di sacralità che sempre aveva avviluppato il potere: si discute ora di tutto, e comunque non ci sono più segreti possibili.
È quella che Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, ha chiamato “democrazia del pubblico”. Che voleva dire una cosa ben precisa – Manin non è un giornalista, è filosofo politico, direttore della Ehess, una delle Grandi Scuole francesi, École des hautes Études en Sciences Sociales, e professore all’università di New York: il corto circuito nel rapporto di rappresentanza operato con l’image building del Capo. O, in termini sociologici, il marketing politico ridotto all’immagine del leader, che si realizza nel rapporto diretto con i media. Quindi senza più il filtro dei corpi intermedi, politici, economici, sociali, e senza più un rapporto diretto con l’elettorato (ridotto a voto di scambio, corruzione, conflitto d’interessi). Se non attraverso la cosidetta opinione pubblica. A sua volta ridotta al gossip, ex scoop, all’intervista, al fotoservizio, al talk show, ai sondaggi pilotati, ai call center.
Nulla di cui scandalizzarsi, concludeva Manin – che teorizzava la “democrazia del pubblico” prima di Berlusconi. Le identità collettive si sono indebolite e sono quindi meno organizzabili. E d’altra parte la “rappresentanza”, canone della democrazia, è stata fin dall’origine del parlamentarismo, nel Seicento, “personalizzata”. Non c’è un’età dell’oro a cui confrontarsi, in cui la democrazia ha funzionato senza filtri, deviazioni, E d’altra parte nella “democrazia del pubblico” i partiti non scompaiono: continuano a mediare la società organizzandosi attorno a un Capo. Una “ristrutturazione” voluta anche dai processi decisionali attuali, che privilegiano il governo: la tempestività sulla riflessione, la premiership o il presidenzialismo sull’assemblearismo. Lo stesso Montesquieu va rivisto, salvandone non tanto l’antistorico equilibrio dei “tre” poteri, ma il concetto di equilibrio, o dei bilanciamenti.
Niente di drammatico, se non che, in Italia, non la “democrazia del pubblico” si è instaurata, ma una violenta faziosità. Con una rottura forte, costante, apparentemente ineliminabile, dell’equilibrio dei poteri. A favore di poteri non sindacabili, la giustizia e i media. L’aura del potere non è saltata in vista della “pubblicità”, della openness, ma al contrario del segreto e delle consorterie. Si decide di fotografare a chilometri di distanza gli ospiti di Berlusconi mentre fanno la doccia e lo si fa, come si decide di non fotografare Grillo, che invece fa i suoi comizi in piazza, per ore, perché Grillo non vuole.
Tutto confluisce, anche qui, nella politica-immagine. Ma come tritacarne, senza criterio e senza bussola. C’è solo l’antiberlusconismo, ma non vuol dire niente e non basta. Landini, leader della Fiom, un sindacalista con poco seguito nel suo stesso sindacato, diventa interlocutore e capopartito in quanto faccia “simpatica”, cioè telegenica – come gli occhi chiari Ghedini e Belpietro, berlusconiani.
E, a livello decisionale, nel plebiscitarismo. Doppiamente una falsa soluzione: schiaccia il pluralismo senza facilitare le decisioni – il governo. Si veda dove l’elezione diretta è stata adottata ormai da quattro o cinque elezioni: i sindaci, come i presidenti di provincia e di regione, non hanno alcuna autorevolezza e non esercitano alcuna autorità.

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