venerdì 3 maggio 2013

Secondi pensieri - 140

zeulig

Autentico – È la parola del secolo - del Novecento, trapassata in questo informe Duemila. Autentica è la verità, la passionalità, la temporalità. Del secolo più tragico, malvagio anche. E poi dei teatrini postmoderni. Della finzione cioè elevata a natura, della parola-finzione.
L’autentico è ambiguo. Nel vocabolario sta per molte cose: certo e veritiero, genuino, sincero, legale o legalizzato. In filosofia sta piuttosto per macerazione, sofferenza del tipo psichico.
Il Devoto lo fa derivare dal greco authéntēs, padrone o autore. E in questo senso si spiega al tempo dell’interpretazione, dell’ermeneutica: l’esegeta è, dev’essere, autentico.
“Il gergo dell’autenticità” è l’opera più diretta e sincera (autentica?) di Adorno – come critico culturale altrimenti appeso all’effimero. Anche se non è arduo andare a fondo all’inautentico (artificioso, forzato, vago)  di tutto Heidegger, prima e dopo Hitler, e anche dopo la “svolta”. Col giustificativo – comune poi a Pasolini – di un’autenticità nell’idillio (il mondo agrario fantasmizzato non è tanto arcaico e anacronistico quanto falso). O della rivoluzione in una visione (bisogno) di stabilità.
A volte inteso come identico a volte come diverso, specifico.

Autofinzione – La finzione (narrazione) elevata a verità. Testimonianza in corpore  del vero – più spesso il corpo degli altri. Pretendendosi a realtà, “la” realtà, unica in quanto sola più che speciale. È uno sviluppo del postmoderno, dove solo conta (è) il linguaggio. Più da letterati in effetti che da filosofi, Foster Wallace, Bolaño.
Non è “mettere a nudo la coscienza”. È piuttosto pratica psicoanalitica, fare un quadro come se emergesse “già fatto” dal profondo.
Dal punto di vista della verità, a cui pretende, è vero che essa fa l’autore al modo stesso in cui l’autore la fa – ogni scrittura, non solo l’autofinzione, è un atto, quindi ha effetto boomerang, di ritorno. È l’effetto che Doubrovsky, inventore del genere, e Guibert, primo praticante, cercavano. Anche in senso teatrale, un impianto d’illuminazione a giorno.

È opinione prevalente che Montaigne, prima di Rousseau, ha inaugurato modernamente il genere, anche se sotto forma di saggi. Per il quale il mondo era una pippa perenne. La citazione celebre, “il mondo non è che una «branloire perennne» (III, 2), è senz’altro da riferire all’altalena, il significato censito in traduzione di branloire, ma la parola rinvia indefettibilmente a Sade. Senza malizia per l’autofinzione – Doubrosvsky stesso definiva la sua autofiction, nella quarta di copertina di “Fils”, come “autofrizione, pazientemente onanista, che spera ora di condividere il suo piacere”..

Giallo – Il suo successo – in Italia tardivo e generalizzato – si somma all’illusione della giustizia. Che giudizi e castighi siano equi e inesorabili. Ma è sostenuto, al profondo, da un’esigenza variata, anche più complessa, che non a caso ne favorisce la diffusione in una con l’urbanizzazione, con la vita “metropolitana”, spersonalizzata: il bisogno d transfert della violenza minuta, quotidiana, ossessionante, cui si è soggetti nella condizione metropolitana. Una violenza individuale, che colpisce la persona, ma anonima e quindi “oggettiva”. Anche quando si individua il colpevole – l’automobilista, l’impiegato pubblico, il compagno di coda – questi è necessariamente non-individuabile. Quand’anche fosse un violento assassino, o un cretino, non lo sapremo, per noi è un fatto generale, di condizione: la prepotenza, il disordine, la maleducazione. Non si sopravvive in questa prepotenza ordinaria senza un sentimento che giustizia è – sarà – fatta.
I serial – in serie – americani, anche quelli di genere non propriamente giallo o noir,  questa esigenza soprattutto coltivano. Inscenano un apparato repressivo e giudiziario che fa sue, prende su di sé, le violenze piccole e grandi che quotidianamente occorrono, il borsaiolo, il pusher, il pirata della strada, il manico sessuale, o le tante condizioni ambigue in cui l’immigrazione per esempio è trascinata.
Americani o all’americana. I serial americani sono affettati: questo transfert, acquisito da manuale, non trova rispondenza nella pratica. Fare una denuncia ai carabinieri è l’atto più deludente e depressivo della normale violenza quotidiana.
Nel giallo italiano il giustiziere è ordinario: un maestro, un sacrestano, uno o più giocatori di scopone, un pensonato che non ha altro da fare, a volte un poliziotto, spesso corrotto. Mai un giudice.

Sette – Fonda la numerologia, e la scardina.

“Al tre, numero dello spirito e della germinazione di ogni forma, si aggiunga il quattro, numero della materia, e si avrà la completezza, il sette, proprio dei nani costruttori”: così Elémire Zolla presenta “Il Signore degli Anelli”. Ma il quattro, aggiunge, è meglio: è la triade benefica, calore luce e aria, corpo anima e spirito, Padre Figlio e Spirito, più il demonio. Significato che una data storica confermerebbe, il 16 aprile 1616, scelta da Shakespeare e Cervantes insieme per riunirsi nell’aldilà – contro il parare di Jonathan Swift, il quale, apologeta del numero tre, riteneva il quattro “cabbalistico e superstizioso”.

Il numero è ricorrente anche al gioco delle certe napoletane, con primiera, settebello e sette e mezzo. E dell’occulto, sotto il segno di Pietro d’Abano. Ha tradizione in Francia ( e il “Colloquium Heptaplomeres” di Jean Bodin, il teorico dello stato moderno, della tolleranza, e della caccia alle streghe, l’ “Heptameron” di Margherita, energica sorella e compagna di svaghi del re Francesco I) e richiamo universale. È la chiave del segreto di Dante per Guénon.
Quattro e sette in realtà sono concorrenti nelle perfezioni. E la controversia è durata a lungo: quando Galileo annunciò i quattro satelliti di Giove, le accuse di sacrilegio vennero dai fautori del numero sette quale metro divino per la regolazione del sistema planetario – li conforterà la cosmologia di Hegel – mentre i sostenitori furono coloro che avevano elevato la quattro a cifra metafisica.

zeulig@antiit.eu

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