Cade nel vuoto lo scandalo del latte avariato in Friuli. A opera degli stessi contestatori delle quote europee del latte. I cui sforamenti costano all’Italia quattro miliardi di multa. Che paghiamo tutti quanti noi, non loro.
Una
truffa anche miserabile, poiché avvelenava i bambini. Ma non interessa a
nessuno. Nessun cronista, nessun fondista, nessun commentatore, nessun
giornale. Perché non è successa a Napoli?
Non ci
sono antropologi a Milano, a Torino, a Bologna, a Roma. Ce ne sono invece, in
cattedra, a Palermo, a Cosenza, ovunque in Sardegna. Pure Napoli privilegia la
lettura “antropologica” dei suoi geni.
Il Tg 2
fa vedere un ragazzo che da Corigliano Calabro è a Dsseldof per lavoro. “Lavoro
in una società di pulizie”, dice, “in attesa di un’occasione”. Guadagnerà 400
euro, al mese, i famosi mini-job del miracolo tedesco, che “occupano” sette
milioni e mezzo di persone? La giornalista non lo chiede, ma il ragazzo sembra
incerto.
La cugina
che l’ha preceduto a Düsseldorf dice: “Opero nello stesso settore”. In attesa
dell’occasione? Ma lei è in età.
I due cugini
a Corigliano mai avrebbero lavorato in una società di pulizie. Benché potessero
risparmiare sull’affitto. Siamo soprattutto sperduti, provinciali.
Verga
fascista? Ma non era morto prima? Lo dice Quirino Principe sul “Sole 24 Ore” di
domenica scorsa. Dopo aver lamentato la scarsa attenzione che si presta a
Dante, per colpa del ’68. La disattenzione – con gli ascolti di Benigni, le
fole di Sermonti? – è “frutto”, dice Principe, “da un lato dell’imbecillità del
1968 e seguenti, quando giovani analfabeti sostennero essere Dante un reazionario
da sostituire con il proletario Verga (ignorando che Dante fu un ribelle
irriducibile e Verga un sostenitore del fascismo in Sicilia”.
È vero che
Verga fu antifascista, nel senso che oppose i Fasci siciliani, il socialismo,
ma questa è un’altra storia. Più che altro è vero che la Sicilia resta remota,
e Verga.
Breve storia segnaletica della Sicilia
I
siciliani sono francesi. Sono stati arabi prima, poi francesi.
Quando
erano punici e greci, erano in realtà siculi di lingua punica e greca.
Poi
gli spagnoli sono venuti, ma non si sono mischiati.
Visi
s’incontrano sbalzati dalle tappezzerie di Bayeux. Intagliati nell’alabastro,
le code degli occhi leggermente all’insù, visi ovali, ricciolini, minuti, occhi
chiari. È impressionante quanti se ne incontrino. I nomi francesi sono in maggioranza, i nomi
anagrafici – i luoghi sono sempre greci e arabi.
I
normanni, seminomadi, curavano poco il territorio, molto il clan, il gruppo
familiare. Gli angioini il gusto della cultura, che è anch’esso molto siciliano
– gli angioini influirono sulla Sicilia ben oltre i pochi anni di dominio
diretto, fino a Eleonora d’Angiò e oltre.
Quando
la Sicilia avrà riavuto l’onore e creerà un vero servizio anagrafico, come
nelle public libraries Usa, le ascendenze
francesi saranno incontestabilmente acclarate.
Ammesso
che lo vogliano, perché i siciliani amano nascondersi. In una favola ripresa in
“Come la penso”, Andrea Camilleri ricorda la storia di Tespi, il primo attore -
hypokrites, colui che dà le risposte
- vittima della ragione di Stato. La quale poi impone a chi vuole apparire
diverso la maschera e i coturni. Fra le tante maschere di hypokrites i cataloghi ne registrano una di “Siciliano”.
Mafia
Leonardo
Vitale aveva raccontato nel 1973 che la mafia nel 1973 voleva eliminare Mauro
De Mauro, un anno prima della sua sparizione, e Bruno Contrada, vent’anni prima
della sua liquidazione legale. Di che far dubitare che i motivi addotti per la
brutta fine dei due, l’uno per aver pestato i piedi all’Eni, il secondo per
complicità mafiose, non sia stata altro che una “traggedia” montata dai mafiosi
e i loro consigliori e sodali – un depistaggio.
La
storia di Leonardo Vitale, di cui abbiamo raccontato la vicenda umana in “Fuori
l’Italia dal Sud”, è spiegata in esteso da Salvatore Parlagreco in “L’uomo di
vetro”, l’unico libro di mafia introvabile. Fu il primo pentito di mafia, e quello che ha denunciato
per primo il ruolo di Riina e di Ciancimino. Quando fece il nome di Riina i
giudici lo mandarono al manicomio – ci mandarono Vitale, non Riina.
“Anche i
giudici gli volevano bene”, commenta Parlagreco, “per questo lo facevano
passare per pazzo”. Molto siciliano, romanzesco, non fosse che non gli
credevano, mostravano di non credergli. “Certo, si trattava di uno psicopatico”,
dirà Falcone a Marcelle Padovani, “ma era stato prodigo di tante affermazioni
vere che avrebbero meritato ben altra considerazione”. Tutto quello che, undici
anni dopo, Buscetta dirà a Falcone, nel 1984, era stato anticipato da Vitale.
Il suo giudice, Domenico Signorino, accusato nel 1992 dal pentito Mutolo, altro
bene informato, di collusione con la mafia, si suiciderà.
Vitale si
era pentito nel vero senso della parola, da solo, senza spinte, senza premi. Disse
anche che si volevano morti il giudice Terranova e il capitano dei carabinieri
Russo. Che saranno uccisi.
Fra i
delitti di Vitale c’era il rapimento dell’ingegner Luciano Cassina. Una ragazza
aveva annotato la targa dei rapitori (omertà?), quella della Lancia Fulvia del
futuro pentito. Ma questo non bastò a incolpare Vitale, che si fece pochi
giorni di cela, confortato dai pizzini che gli spiegavano cosa dire.
Dice
Andrea Camilleri ai giudici, invitato a un convegno del Csm nel 2007: “Mi ha
sempre disgustato vedere i giudici spingere con l’inganno e le false speranze
di favori o del perdono il criminale a confessare la sua azione, e adoperare in
ciò la frode e l’impudenza. È una giustizia perfida, non meno ferita da se
stesa che da altri”. Senza reazione del consesso dei giudici.
Lo Stato
è mafia se lo dice Massimo Ciancimino? Anche un carabiniere pluricondannato, il
colonnello Riccio, è vero.
leuzzi@antiit.eu
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