Un bellissimo manufatto: un
libro di quasi duemila pagine maneggevole. In cui si può leggere il “Decameron” originale
a corpo ancora decente all’occhio, oppure farselo semplificare in linguaggio
scorrevole, con note lunghe quanto il testo. E farselo inquadrare da ogni punto
di vista, letterario, storico, filologico, da un centinaio di pagine di introduzioni.
Sottraendo il narratore alla sterile diatriba (dialettica?) sulla borghesia
mercantile, finanziaria, e la libertà repubblicana dei Comuni. Per non dire
della transizione dal feudalesimo al capitalismo: i racconti del “Decameron”
hanno anch’essi un sottofondo “esemplare”, ma secondario rispetto alla felicità
narrativa, delectare viene prima che docere - se non altro per farsi leggere,
fatica non lieve.
Ma è un’edizione non si sa
se più triste o entusiasmante. Per leggere Boccaccio oggi, che pure rimane piacevole
intrattenitore, scorrevole (“moderno”), bisogna semplificarlo? Abbiamo perso il
lessico e la sintassi, constata Amedeo Quondam, l’italianista della Sapienza che
ha curato questo piccolo grande libro, insieme con Giancarlo Alfano e Maurizio
Fiorilla. All’improvviso i classici, i nostri classici, della tradizione italiana,
che non è morta e non è nemmeno tanto remota (le città sono sempre quelle, le
società pure), sono diventati “sistemi di senso remoti”.
È da dubitare che questo sia
lo stato della comunicazione. O meglio sì, è come dice Quondam, “l’economia dei
processi comunicativi” è mutata. Ma la lettura non è solo un processo
comunicativo. Ha a monte un processo formativo. Oggi come sempre. È un errore confondere
la comunicazione con la formazione, anche se su presupposti democratici – sono falsi
presupposti, falsamente democratici cioè. Che porta al successivo errore, del depauperamento
della formazione come ineluttabile, e forse auspicabile. Per un altro equivoco democratico
- tutti letterati, giacché tutti sono, possono essere, laureati.
Malgrado tutto, resta questa
l’unica nuova edizione del “Decameron”, dopo quella cinquant’anni fa di Vittore
Branca. Che si può rileggere alla luce di due temi affascinanti, e forse
veritieri, proposti da Quondam. Qui non si celebra lo spirito capitalistico
(che, si può aggiungere, è una tardiva invenzione, e un travisamento, di e su
Max Weber): i mercanti nel “Decameron” sono rari, e nessuno risplende. Boccaccio
è, modernamente, indaffarato a rilanciare la nobiltà di armi e di spirito: la
lealtà e l’ardimento, sono questi i suoi valori “moderni”. Da lui mediati nella
lunga permanenza a Napoli, attorno alla “vera nobiltà” della corte angioina –
Boccaccio napoletano è troppo dimenticato. Un terzo tema, che Quondam propone da studioso consolidato di
Petrarca, è la successiva sterilizzazione di Boccaccio alla scuola del poeta,
da lui venerato servilmente, col maestro che riduce i racconti, in volgare!, a
divertimento, “iocosa et lenia”, avendoli letti controvoglia.
Giovanni Boccaccio, Decameron, Bur, p. 1851 € 18
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