Sei storie
di varia umanità a Firenze e in Toscana tra Cinque e Seicento. Di povertà e
ignoranza, di dileggio e furberia, tra ori potabili e apparizioni, di
conversioni più o meno opportuniste, di un mondo italianissimo nella diversità
- l ‘unico altro, il diverso, fu a lungo in Italia l’ebreo. Che ne fa la
lettura accattivante, benché Toaf non indulga in paradigmi né in indizi.
Un saggio
racconta dell’ebraico tradotto per secoli, contro le intenzioni, nell’italiano
popolare, il romanesco, il fiorentino, a Livorno il bagitto. Ma tutto il libro esprime
una psicologia di radicamento. Naturale senza residui o riserve. Per la lingua specialissima
di questo storico. Nel giro della frase, non da scienziato ma da amabile
padrone di casa. Nella scelta della lingua, non ancora televisiva o
globalizzata, specie nel ricorso - spontaneo, non artificioso – a vocaboli
desueti: i sommommoli caldi, “la bruna torta di ceci – la cecina! – che a
Livorno e Pisa piace bassina e cotta bene”, le ribotte, il caratello… Nella “scoperta”
del lazzo, e non della persecuzione, quale strumento per colpevolizzare il diverso
– gioco reciprocato.
Di più si parla
del ghetto di Firenze. Di storie minute cioè, essendo quella comunità ebraica
piccola e incolore. Ma il vero argomento è la convivenza. Storie vere.
Ariel
Toaff, Storie fiorentine, Il Mulino,
pp. 216 € 16
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