lunedì 10 giugno 2013

Essere ebreo per essere italiano

Sei storie di varia umanità a Firenze e in Toscana tra Cinque e Seicento. Di povertà e ignoranza, di dileggio e furberia, tra ori potabili e apparizioni, di conversioni più o meno opportuniste, di un mondo italianissimo nella diversità - l ‘unico altro, il diverso, fu a lungo in Italia l’ebreo. Che ne fa la lettura accattivante, benché Toaf non indulga in paradigmi né in indizi.
Un saggio racconta dell’ebraico tradotto per secoli, contro le intenzioni, nell’italiano popolare, il romanesco, il fiorentino, a Livorno il bagitto. Ma tutto il libro esprime una psicologia di radicamento. Naturale senza residui o riserve. Per la lingua specialissima di questo storico. Nel giro della frase, non da scienziato ma da amabile padrone di casa. Nella scelta della lingua, non ancora televisiva o globalizzata, specie nel ricorso - spontaneo, non artificioso – a vocaboli desueti: i sommommoli caldi, “la bruna torta di ceci – la cecina! – che a Livorno e Pisa piace bassina e cotta bene”, le ribotte, il caratello… Nella “scoperta” del lazzo, e non della persecuzione, quale strumento per colpevolizzare il diverso – gioco reciprocato.
Di più si parla del ghetto di Firenze. Di storie minute cioè, essendo quella comunità ebraica piccola e incolore. Ma il vero argomento è la convivenza. Storie vere.
Ariel Toaff, Storie fiorentine, Il Mulino, pp. 216 € 16

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