Milano vuole la sua giustizia una ghigliottina, ma non ha nulla
dell’orrida grandezza del terrore. Al contrario, è selettiva. È non ha un
disegno politico ma di potere. Di piccolo cabotaggio ma bieco: il potere degli
affari, che come le mafie sempre si mordono tra di loro.
Per un Berlusconi condannato, che non ha rubato nulla a nessuno e
non ha mai licenziato nessuno, quanti robber
barrons accertati, mai indagati o subito assolti: Umberto Agnelli, Romiti,
De Benedetti, Colaninno, Gnutti, Tronchetti Provera, Moratti, la
Rizzoli-Corriere della sera, le banche, grandi, medie e piccole. C’è sempre
stata a Milano la libertà di rubare – “i soldi entrano in Borsa”, diceva Mattioli
a Piovene nel 1957, celiando ma non del tutto, “e non si sa dove finiscono”. Da
Mani Pulite, un quarto di secolo ormai (Mani Pulite cominciò col falso processo
a Sofri nel 1989), con buona coscienza, impunità garantita dal palazzo di
Giustizia, e poteri d’interdizione totali, sull’opinione e la politica.
In particolare Milano si è impossessata gratis degli ex monopoli
pubblici, e dei banchi meridionali, Banca di Roma, Banco di Napoli, Banco di
Sicilia. Azzoppando poi la Banca d’Italia, quando il governatore Fazio pretese
di regolare infine le banche popolari, il fiume del sottogoverno lombardo –
pronta la Procura lo ha azzoppato. Ora punta agli affari piccoli, quelli di
Berlusconi.
È difficile non vedere che a Milano la giustizia è una resa dei
conti tra bande. Il prossimo passo sarà la condanna di Berlusconi a pagare De
Benedetti per aver salvato la Mondadori dal fallimento e la spartizione delle
sue attività - di una parte dei suoi affari, le case editrici e la
banca-assicurazione. Ma di più angoscia il peso enorme che questa città
corrotta in ogni fibra ha preso sul nostro destino. L’immoralismo di
Berlusconi, l’unico sanzionato dalla legge, è peccato minore a Milano. Dove si
fa commercio di modelle, di droga, di riciclaggio, di cure sanitarie, senza mai
un solo atto di contrasto.
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