È
la scoperta che Luisa Muraro fece nel 1991, in “L’ordine simbolico della
madre”, dell’autorità “in quanto forza che agisce in maniera inconfondibile dal potere e dal
diritto”. L’argomento può cozzare contro le tante specie di autoritarismi che
l’Europa ha vissuto nei fascismi, ma è un’altra cosa. È un esito della
differenza sessuale. Che ora, un paio di decenni dopo, è incontestata – la
donna in carriera non è tutto e non il più importante (fare la marine, per esempio, è del tutto
inutile, e forse dannoso): “La semplice presenza fisica personale non basta a
modificare tradizioni e istituzioni che rispecchiano una visione mutilata del
mondo”. Nella differenza femminile, la funzione materna (generazione,
gestazione, lingua, cibo, cura) genera autorità: “Il senso dell’autorità inizia
con la relazione materna”. E viceversa, l’autorità arricchisce (sostanzia) la
funzione materna. La riproduzione.
È
un bene? È una necessità. Luisa Muraro si muove tra Galileo, nel nome della
natura, e Montaigne, nel nome dell’io – “«il fondamento dell’autorità» nelle
parole di Montaigne riprese dal suo lettore Pascal, è un genitivo soggettivo:
significa che l’autorità è fondante, non fondata”. In una mezza dozzina di
vignette (istituzioni, scienza, arte, famiglia, costumi, lingua) illustra i
diversi aspetti dell’autorità necessaria o utile.
L’erba voglio
Per
una nata nel 1940, cioè per una del Sessantotto, e una delle prime pedagogiste
antiautoritarie, con Elvio Fachinelli, de “L’erba voglio”, l’autorità cozza col
bisogno totale di libertà. Ma all’apparenza: “L’autorità risponde a un bisogno
di tipo non materiale ma simbolico (simile in ciò alla voglia d’imparare a
parlare, nelle creature da poco venute al mondo)… È un bisogno simbolico ed è
al tempo stesso bisogno di simbolico: di parole, gesti, immagini, arte, poemi,
monumenti, cerimonie…”
Un
ritorno all’ordine. Un altro. Si rivoluziona una vita per poi tornare ai
fondamentali. Succede dunque pure in filosofia, come nella sperimentazione in
letteratura - dove si finisce con Umberto Eco che vorrebbe rifare Dumas.
Qualcosa resta della scintilla, ma spenta, tipo cenere – le riconversioni
raramente convincono, i surrogati.
Le
crisi lo fanno, impongono questi richiami. La guerra civile lo fece con Hobbes,
che Muraro non cita. L’hitlerismo con Simone Weil, e la guerra con Hannah Arendt,
alle quali Luisa Muraro si rifà. Bisogna riprendere il bandolo della
convivenza, e in qualche modo restaurare l’autorità – nel significato di
autorevolezza, per abbreviare, e non di autoritarismo. Simone Weil, alla fine
del percorso che Muraro segue, conclude perentoria in “Radici” che l’ordine dell’autorità
“è sempre gerarchico”. Che è vero, specie in pedagogia, ma Luisa Muraro lo
rifiuta. Con Hannah Arendt concorda sull’essenziale, che “la vita pubblica
senza l’autorità e senza l’indipendenza che questa dà nei confronti del potere,
toglie alla politica «dignità e grandezza»”. Ma non sull’origine “fondativa”,
tradizionale, dell’autorità. Per concludere: “Senza cultura dell’autorità, l’esperienza
di una qualche superiorità altrui genera invidia, dipendenza o ribellismo, e il
principio di uguaglianza diventa piatto: si traduce in un’accanita ricerca
della parità, e rischia la sterilità simbolica, come una pianura in cui le
acque ristagnano”
La sterilità
simbolica
In
“Che cos’è l’Autorità?”, 1954, un quarto di secolo prima della “disobbedienza
civile”, che ne avrebbe alterato le percezioni, in senso libertario non
eversivo, H.Arendt era suggestionata dalla lezione di Alessandro Passerin d’Entrèves.
Italianista a Oxford per ragioni di cattedra, ma filosofo dello Stato, Passerin
d’Entrèves fu l’unico intermediario tra sé e Hobbes che Arendt dopo la guerra
trovava, il quale l’Auctoritas riconduceva
al mito fondante di Roma. L’autorità Muraro vuole minuscola per differenziarla
dalle forme del potere, ma è l’Auctoritas
di Passerin d’Entrèves e Arendt, l’autorevolezza.
Muraro
parte dalla pedagogia, la forma autoritaria più sensibile e più complessa. In
senso proprio, l’educazione dei bambini, dove è totalitaria. E in senso lato,
di formazione continua e della sana epistemologia. Galileo, che per primo e con
successo contestò il principio di autorità rispetto alla ricerca, al “gran
libro della natura”, rinchiuse le due figlie in convento per poter lasciare
tutto al figlio maschio. E d’altra parte, scrivendo “Il Saggiatore”, dove
contesta l’autorità dei libri già scritti, “l’autore Galileo aveva bisogno di
autorità”. Di cui c’è troppo, insomma, e troppo poco.
Muraro
parte dalla pedagogia in quanto “relazione materna”. Una delle “figure di
scambio” in cui si forma la conoscenza. Alla fine “l’autorità non offre
garanzie, ma si offre come un’opportunità, chiede di essere riconosciuta e
praticata per quello che promette. Che cosa promette? Se stessa in quanto forza
simbolica alternativa a ciò che ci schiaccia, persone o cose o problemi,
compresi quei problemi che ci pesano internamente”. Allora attraverso la
psicoanalisi, per esempio, o la fede, la preghiera.
Agli
inizi della breve trattazione, Luisa Muraro sembra credere che l’autorità sia
stata minata dalle verità scientifiche e dalle competenze. Cioè da due
ideologie – “verità” scientifiche? Che per quanto influenti, non sono decisive.
No, è stata minata dalla democrazia sussidiaria, dall’assoggettamento
dell’opinione e dello spazio decisionale del singolo (il voto, essenzialmente)
a gestori nemmeno tanto occulti.
Luisa
Muraro, autorità, Rosenberg &
Sellier, pp.110 € 9,50
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