Anche qui
Camilleri è facondo, ma a volte divertente, quando non è insopportabile. È una raccolta
di scritti vari, lezioni magistrali, relazioni a convegni, prefazioni, recensioni,
articoli, e non poteva dare che il solito Camilleri, militante e ambiguo. Blagueur amabile, dall’aneddotica lieve
e divertente, e opportunista. Mentre accumula scemenze di saggezza.
Quelle del
“saggio” centrale, “Cos’è un italiano?”, sembrano impossibili – è inutile
riassumerle, sono insensate. Tanto più in una compilazione che segnala non meno
di cinque lauree honoris causa all’autore
del “saggio”, in prestigiose università italiane, in: Storia dell’Europa (qui siamo al
dottorato di ricerca), Psicologia applicata, clinica e della salute, Filologia
moderna, Lingue e letterature straniere, Sistemi e progetti di comunicazione.
Più l’inaugurazione di un anno accademico. Il “saggio”, Camilleri ci preinforma
orgoglioso, è “diventato un libro in Germania e in Francia”. Non per le frasi
fatte? Lui non lo sospetta, poiché l’italiano di Camilleri è Camilleri – che
per questo è anche esterofilo: per Camilleri di buono ci sono i dialetti e l’Estero,
qualunque sia. E i dieci milioni di Montalbano, anche alla terza replica, dopo
le lauree? Questi italiani sono camilleriani.
Però, la
raccolta è di scritti in italiano, volendo si possono leggere. Con qualche
godimento anche. Più frequente nei ricordi di personaggi, siciliani o molto
camilleriani “amici e maestri”. Come Sciascia, che se ne tiene a distanza. “La
difesa di un colore”, del giallo narrativo, italiano e non, è quasi perfetta. L’antiberlusconismo obbligato assurge in più punti al cabaret.
Da ultimo nelle note favole. Dalle quali ha espunto quella in cui augura la
morte al Cavaliere. Non stava bene, essendo il Cavaliere lo stesso che immortala
Camilleri nei suoi “Meridiani” e ne tiene su la linea in convegni e seminari. O
forse perché è cominciata l’appopriazione gesuitica del cadavere del nemico. O
anche semplicemente perché, volendosi comunista, lo scrittore ha scoperto che nessun
comunista vuole la morte del suo nemico, sia pure cattivo. Camilleri lo aveva fatto per sgherzo, perché è siciliano e guitto, mezzo Ficarra Picone.
Dovendo
parlare di lui, poiché è di lui che il libro parla (“Alcune cose che ho dentro
la testa” è il sottotitolo), si conferma che Camilleri non si può dire
ipocrita. È anzi esplicito: il suo compaesano Pirandello amava le maschere, lui
è per l’uomo nudo. Invitato a un convegno del Csm rimprovera i giudici con
asprezza. Ma non si sa vestire. Nel primo gruppo di scritti, sul cinema,
critica naturalmente la Fininvest, che ha “abbassato” la qualità della tv. Per poi
dare voce a un esperto americano che gli rimprovera, in quanto produttore Rai,
“l’assoluta eleganza” di “Studio Uno”, il varietà del sabato sera di Antonello
Falqui: “Voi sprecate cinque, sei star in un’ora. Da noi una star dispone al
massimo di un ospite. Sarebbe troppo costoso produrre e vendere uno spettacolo
simile”. La vera “America”, si sa, è a viale Mazzini - talvolta con l’Iva.
Ha anche qualche
complesso, sembra che il fascismo lo abbia tarantolato. Per essere stato fascista
fino al 1943, ai diciassette anni. Onorato l’anno prima, sedicenne, con l’invito
a tenere una relazione sul teatro giovanile, al raduno fiorentino del Nuovo
Ordine Europeo, le gioventù hitleriane del famigerato Baldur von Schirach. Sembrerebbe
un complesso di colpa, ma Camilleri ha appena plaudito Amerigo Bartoli, altro fascistone simpatico, che su “Primato”,
la rivista del fascismo, nel 1942, anno trionfale, ha ridotto Croce a storico
di “storielle”. Non ha preso dalla sua creatura Montalbano, che non si
angustia, non per la memoria. Ora, poiché è felicemente a un libro a
quindicina, aspettiamo il camilleriano colpo al cerchio e uno alla botte sul
governo delle larghe intese.
Andrea
Camilleri, Come la penso,
Chiarelettere, pp. 340 € 13,90
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