Autorità – È uno dei problemi che angustiano Hannah Arendt in “Passato e presente”, 1968 – ma il saggio relativo, “Che cos’è l’Autorità?”, è di molti anni prima, il 1954. A ricasco della guerra. E delle lezioni di Alessandro Passerin d’Entrèves a Oxford, da Arendt apprezzate e rielaborate.
Antifascista
e partigiano a Torino, quindi professore di italianistica a Oxford, ma di suo
giurista e filosofo del diritto, Passerin
d’Entrèves si può dire intermediario praticamente isolato con Hobbes, di cui
Arendt è a suo modo la reincarnazione – la scienza politica dopo la guerra
civile, la scienza politica dopo il totalitarismo.
Forza,
potere e autorità, Passerin d’Entrèves lo spiega, fanno la sua elegante “Dottrina
dello Stato”. La mafia, che non ha studiato, lo sa: la forza mista all’autorevolezza, l’Auctoritas, la romana
legittimazione. Che all’Italia sempre è mancata, argomenterà l’illustre
studioso nell’ultima prolusione a Oxford nel 1956, per avere i Savoia e i loro
aiutanti scambiato i bastoni per briscola: “I governanti dell’Italia unita
sembrano aver provato più paura da dentro che da fuori”….. Quanto a Marx,
Passerin d’Entrèves dava infine ragione a Mazzini: “La nozione marxista dello
Stato si attaglia alla concezione volgare italiana che la forza e non il
consenso è la chiave della politica”.
Si
contesta regolarmente in Italia, governando Andreotti prima, poi Berlusconi, la
festa della Liberazione. Mentre la Resistenza è stata ed è lo specchio
dell’Italia che si vuole Italia, unita cioè e intraprendente. È il momento in
cui la forza, seppure limitata, e il potere si combinano, direbbe Passerin
d’Entréves, nella legittimazione o Auctoritas – bisogna riscoprire la
dottrina dello Stato di questo esiliato della Repubblica: il potere non è la
violenza, e se ne tiene anzi distinto. Lo stesso Mussolini di Salò ne è
figurazione, che sapeva di rappresentare un’esigua minoranza, e più disperata
che convinta, terroristica.
È la sovranità, l’Auctoritas, che
l’America realizza nel modo più pieno, e anzi in eccesso. Auctoritas
che, lo stesso Passerin d’Entrèves insegna, è chiesastica, ed è la base della
libertà. Che non è essere Dio, l’uomo è limitato, tanto più un manovale con
poco mestiere. L’uomo non è libero alla nascita da questo punto di vista, la
libertà è solo condivisa. E viene così la nazione, la famiglia di storia,
lingua, modo d’essere. La patria è la forza, accanto alla religione,
Tocqueville va aggiornato.
Babele – Non è l’uomo che fa Babele, è Dio. L’uomo
parlava una sola lingua e Dio, invidioso, scese a impedirglielo.
La
lettura del “Genesi”, 11, è terrificante. A celebrazione dell’unità, gli
uomini, che intanto avevano imparato a fare i mattoni per costruire invece
delle pietre, dissero: costruiamo una bella torre a celebrare la pace. Dio
allora sospetta che gli uomini “possano condurre a termine tutto ciò che si
propongono”, e si dice: “Scendiamo a confondere il loro linguaggio, in modo che
non s’intendano più gli uni con gli altri”. Li disperde, e il luogo della città
resta come babel, confusione, “perché
ivi il Signore confuse il linguaggio di tutti popoli e da lì li disperse per tutta
la terra”.
Cura – È argomentazione di Martha Nussbaum e altre
filosofe, in chiave femminista. Del dispendio di energie che sempre incombe
sulla donna, per gli oneri della famiglia e della casa anche quando svolge un
lavoro fuori, ed è in carriera. E della cura degli anziani di famiglia.
Si può argomentare
una “diversità” uomo-donna di fronte alla sofferenza, e alla sofferenza del
congiunto (di fronte al congiunto: come è di tutta la relazione uomo-donna, nell’innamoramento e in famiglia,
nella coppia e con i figli). Effetto di imprinting
(lunga storia)? Effetto della natura, della diversa costituzione fisica e
fisiologica?
I casi –
non statistici, che non esistono e forse sarebbero inutili, ma ben viventi. La
madre di G.D. che “si libera” del padre accudendolo, per quattordici anni. O Fa.
e Vo. Lei capace di accudire lui ogni giorno per molte ore, benché in ospedale,
nel lungo coma di un mese e mezzo. Ma subito, quasi subito, insofferente di lui
quando si è rimesso. Fino alla fuga, alla “follia” (complesso di persecuzione),
al salto nel vuoto contro un aggressore inesistente. Per debolezze e
insufficienze di lui (egotismo, “superficialità”), ma anche per una sorta di
ripulsa. Per effetto del climaterio, ma anche dopo. “Lui” peraltro capace di
accudire “lei”, ma: 1) con più coinvolgimento emotivo, da pari a pari più che
da padrone e sotto, che 2)si riflette in un continuo interrogarsi sulla vita e
l’uso della vita, sia che lavori, sia ancora in attività, sia che sia
pensionato e quindi “libero” di accudire. Da cui anche l’allontanamento: un
distanziamento. Che prende pure aspetti pratici: come farsi aiutare per la
parte materiale del care, aiuto che
la donna, purché ciò non implichi uno sforzo fisico, purché sia solo estetico e
filosofico, non necessita e anzi tende a escludere.
Non c’è
il caso di lei, nemmeno in letteratura, che si cerchi un’altra situazione in
costanza di care. C’è invece per lui:
il rapporto di coppia è diverso per lui e per lei. Per lui non è
concorrenziale, è uno stato d’animo, di tranquillità, e di “darsi coraggio”
(incitazione). Di stabilizzazione degli umori anche. Per lei è un rincorsa, che
finisce presto nella ripulsa. E si acquieta nella malattia.
Tempo – Il tempo assoluto è un incubo, per tutti.
Kant: “È
legge necessaria della nostra sensibilità e quindi condizione formale di tutte
le percezioni che il tempo precedente determini il seguente”.
Sembra
una castroneria e forse Kant non l’ha detto – anche se a volte diceva
castronerie. E invece no: senza la memoria (mentale, fisica), il tempo non è. Pure
in natura: l’evoluzione è casuale e non determinata, il tempo inconseguente, di
uno o di mille unità, o di un milione, tra miliardi di esiti possibili. Il
tempo non determina niente.
Morte - Si
può dire, come molte religioni e alcuni filosofi dicono, un incidente di
percorso. Non ingrato se, come avviene
per molti, è una liberazione dalle
seccature: i doveri, la fatica, i malanni. Per continuare a vivere nella
memoria, anonimi o celebrati, in fisionomie più o meno lusinghiere, in branco o
in un angolo, ogni giorno o a ogni morte di papa, ma senza doversi occupare e
preoccupare di nulla. A volte col dubbio di vivere veramente: agire, fare,
intervenire.
Non da
ora c’è il dubbio, è dai versi di Euripide che Platone cita nel “Gorgia”: “Chi
può sapere se il vivere non sia morire,\ e se il morire non sia vivere?”
zeulig@antiit.eu
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