La ripresa
dei contatti tra Usa e Cina nel 1971, dopo la guerra per procura in Corea a
partire dal 1950, avviata a Pechino in segreto da Kissinger, allora mero
consigliere di Nixon per la Sicurezza, è anche l’avvio della “coesistenza
concertata”. Della politica che domina da quasi mezzo secolo i rapporti tra le
due superpotenze, e ha stabilizzato il Pacifico, facendone l’area di maggiore
sviluppo al mondo e nella storia. Nixon e Mao la consacrarono nella stessa
Pechino l’anno successivo.
La
“coesistenza concertata” si basava, e si basa, sull’accantonamento di tutto ciò
che può creare frizioni, per dare libero corso invece alle opportunità di
scambio e libera evoluzione delle reciproche sfere d’influenza. È stata
ribadita nella visita l’altro mese del presidente cinese Xi negli Usa. Ha dato
benefici enormi sia all’una che all’altra parte. Ha consentito una rapidissima
integrazione della Cina nelle istituzioni economiche internazionali, Wto, Fmi,
Banca Mondiale – mentre la Russia, l’altra superpotenza ex comunista, ha
trovato, e trova ancora, resistenze.
L’arte diplomatica
L’arte
diplomatica è in disuso e anzi in disgrazia. Ma non si saprebbe non apprezzarne
la qualità. Anche nel tono minore che Kissinger usa per rivendicarla. Da
storico, che sempre si rifà a esperienze precedenti. In passato basò il
multilaterialismo sulla politica del concerto, o dell’equilibrio, del Congresso
di Vienna. Sembrava una snobberia e invece il professore era serio. Non senza
ragione. La “coesistenza concertata”, spiega qui, è quella che resse
l’equilibrio europeo tra le superpotenze d’allora: l’Inghilterra vittoriana
imperiale e la Germania di Bismarck che cresceva a passi da gigante. Fino al
1914. Ad agosto i due paesi erano in guerra, a luglio ancora negoziavano un prestito inglese alla Deutsche
Bank per finanziare la ferrovia Berlino-Baghdad, progettata per cortocircuitare
il dominio britannico del mare, almeno in Medio Oriente.
Kissinger
ci arriva dopo una lezione non inopportuna sulla storia dell’India, che sembra
“non avere avuto inizio” e sia senza sviluppo. Ciò non è vero naturalmente. Ma
il professore intende che con la Cina ci vuole pazienza, e cautela. E batterie
pronte. Oggi meglio, a suo avviso, di tipo commerciale. S’innestano qui i due
progetti obamiani, per un’area di libero scambio atlantica, Tafta o Ttip, e una
transpacifica, Tpp, senza la Cina. Kissinger, il realpolitiker per eccellenza, si assottiglia, ma sa di che parla.
Nei suoi contatti informale a Pechino nel 1971, e poi nell’incontro “storico”
di Nixon con Mao, che pose le basi della “globalizzazione”, nientedimeno, la
“coesistenza concertata” fu concordata in termini semplici: mettere da parte
gli attriti e le questioni che ne erano alla base e sviluppare i punti di
convergenza, anche per consentire agli attriti di dissolversi, spiegarsi,
rientrare. Dandosi anche però reciprocamente degli strumenti per “valutare le
vere intenzioni” dell’una e dell’altra parte in caso di crisi. Non una politica
ipocrita, ma una maniera efficace per inquadrare e depotenziare i contrasti,
inevitabili in ogni relazione e più tra superpotenze.
Dopo Machiavelli Kissinger
Per questo
Kissinger è detto un realpolitiker,
ma il suo approccio è intellettuale. Dopo Machiavelli, l’altro grande
cancelliere intellettuale nella politica delle potenze. Il suo approccio è
sempre concettuale. Kissinger non parte dal conto delle testate multiple
americane, o dal potenziale Usa di distruzione.
Il
professore sa, prosaicamente, che in quindici casi studiati di confronto tra
una potenza emergente e una potenza dominante, undici volte la cosa è finita in
conflitto. Ma Kissinger non si vergogna di essere (buon) diplomatico, oggi del
tutto controcorrente: c’è una certa nobiltà nel cercare di evitare la guerra,
sia pure contro le ragioni nobili della giustizia e dell’onore – senza
naturalmente rinnegarle, né sminuirle.
Henry
Kissinger, Cina, Oscar, pp. 514 € 13
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