lunedì 29 luglio 2013

Dalla “coesistenza concertata” alla globalizzazione

La ripresa dei contatti tra Usa e Cina nel 1971, dopo la guerra per procura in Corea a partire dal 1950, avviata a Pechino in segreto da Kissinger, allora mero consigliere di Nixon per la Sicurezza, è anche l’avvio della “coesistenza concertata”. Della politica che domina da quasi mezzo secolo i rapporti tra le due superpotenze, e ha stabilizzato il Pacifico, facendone l’area di maggiore sviluppo al mondo e nella storia. Nixon e Mao la consacrarono nella stessa Pechino l’anno successivo.
La “coesistenza concertata” si basava, e si basa, sull’accantonamento di tutto ciò che può creare frizioni, per dare libero corso invece alle opportunità di scambio e libera evoluzione delle reciproche sfere d’influenza. È stata ribadita nella visita l’altro mese del presidente cinese Xi negli Usa. Ha dato benefici enormi sia all’una che all’altra parte. Ha consentito una rapidissima integrazione della Cina nelle istituzioni economiche internazionali, Wto, Fmi, Banca Mondiale – mentre la Russia, l’altra superpotenza ex comunista, ha trovato, e trova ancora, resistenze.
L’arte diplomatica
L’arte diplomatica è in disuso e anzi in disgrazia. Ma non si saprebbe non apprezzarne la qualità. Anche nel tono minore che Kissinger usa per rivendicarla. Da storico, che sempre si rifà a esperienze precedenti. In passato basò il multilaterialismo sulla politica del concerto, o dell’equilibrio, del Congresso di Vienna. Sembrava una snobberia e invece il professore era serio. Non senza ragione. La “coesistenza concertata”, spiega qui, è quella che resse l’equilibrio europeo tra le superpotenze d’allora: l’Inghilterra vittoriana imperiale e la Germania di Bismarck che cresceva a passi da gigante. Fino al 1914. Ad agosto i due paesi erano in guerra, a luglio ancora  negoziavano un prestito inglese alla Deutsche Bank per finanziare la ferrovia Berlino-Baghdad, progettata per cortocircuitare il dominio britannico del mare, almeno in Medio Oriente.
Kissinger ci arriva dopo una lezione non inopportuna sulla storia dell’India, che sembra “non avere avuto inizio” e sia senza sviluppo. Ciò non è vero naturalmente. Ma il professore intende che con la Cina ci vuole pazienza, e cautela. E batterie pronte. Oggi meglio, a suo avviso, di tipo commerciale. S’innestano qui i due progetti obamiani, per un’area di libero scambio atlantica, Tafta o Ttip, e una transpacifica, Tpp, senza la Cina. Kissinger, il realpolitiker per eccellenza, si assottiglia, ma sa di che parla. Nei suoi contatti informale a Pechino nel 1971, e poi nell’incontro “storico” di Nixon con Mao, che pose le basi della “globalizzazione”, nientedimeno, la “coesistenza concertata” fu concordata in termini semplici: mettere da parte gli attriti e le questioni che ne erano alla base e sviluppare i punti di convergenza, anche per consentire agli attriti di dissolversi, spiegarsi, rientrare. Dandosi anche però reciprocamente degli strumenti per “valutare le vere intenzioni” dell’una e dell’altra parte in caso di crisi. Non una politica ipocrita, ma una maniera efficace per inquadrare e depotenziare i contrasti, inevitabili in ogni relazione e più tra superpotenze.
Dopo Machiavelli Kissinger
Per questo Kissinger è detto un realpolitiker, ma il suo approccio è intellettuale. Dopo Machiavelli, l’altro grande cancelliere intellettuale nella politica delle potenze. Il suo approccio è sempre concettuale. Kissinger non parte dal conto delle testate multiple americane, o dal potenziale Usa di distruzione.
Il professore sa, prosaicamente, che in quindici casi studiati di confronto tra una potenza emergente e una potenza dominante, undici volte la cosa è finita in conflitto. Ma Kissinger non si vergogna di essere (buon) diplomatico, oggi del tutto controcorrente: c’è una certa nobiltà nel cercare di evitare la guerra, sia pure contro le ragioni nobili della giustizia e dell’onore – senza naturalmente rinnegarle, né sminuirle.
Henry Kissinger, Cina, Oscar, pp. 514 € 13

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