“Il mito di Prometeo si presta a essere interpretato anche come una rappresentazione dell’apparato psichico dell’odierno soggetto di prestazione, il quale usa violenza a se stesso, fa guerra a se stesso”. Le poche righe di premessa alla sesta edizione tedesca colpiscono come un fulmine: “Il soggetto di prestazione, che s’immagina libero, in realtà è incatenato come Prometeo. L’aquila, la quale si ciba del suo fegato che ogni volta ricresce, è il suo alter ego con cui egli è in guerra”. Nel soggetto di prestazione, della società di prestazione, il filosofo coreano-tedesco sa racchiudere un mondo che s’impicca al suo albero: fare fare fare, riuscire riuscire riuscire. Tornando al Prometeo della minipremessa: “Il dolore al fegato, di suo incapace di dolore, è la stanchezza”. Si legge in un soffio, lascia nudi e inermi – immuni all’immunologia: “Esaurimento, affaticamento e soffocamento”, in altri termini “la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività o la sindrome da burn out”, sono “tutte manifestazioni di una violenza neuronale,… si riferiscono a un eccesso di positività”. Sono il migliore e sono fregato.
Come lo sappiamo? Non c’è chi non lo veda: il verbo modale “della società di prestazione è il «poter fare» illimitato”, lo “yes, we can”. La sua modalità di controllo è la prestazione: “La società disciplinare (foucaultiana) è ancor dominata dal no. La sua negatività produce pazzi e criminali La società di prestazione, invece, genera depressi e frustrati”.
L’uomo depresso è ”l’animal laborans che sfrutta se stesso del tutto volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice” – animal per modo di dire, quello “tardo-moderno è tanto ricco di ego fin quasi a scoppiarne… iperattivo e nevrotico”. Suicida inconsapevole su tutti i fronti: “La moderna perdita della fede, che riguarda non solo Dio o la vita ultraterrene ma anche la realtà stessa, rende la vita umana incredibilmente fugace. Essa non lo è mai stata come oggi. Non solo la vita umana è incredibilmente fugace, ma lo è anche in generale il mondo”. Finita è anche la poesia, l’immaginazione inutile: “La generale de-narrativizzazione del mondo rafforza il senso di fugacità. Mette a nudo la vita. Il lavoro stesso è una nuda attività.Il nudo lavoro è esattamente l’attività che corrisponde alla nuda vita”.
Leggendo casualmente nello stesso tempo dell’ebbrezza di Speer, personaggio non perverso ma architetto di Hitler, nel mezzo della guerra e dello sterminio, si concorda con Han d’intuito. Ma non c’è riga non convincente: “La depressione è la malattia di una società che soffre dell’eccesso di positività. Rispecchia quell’umanità che fa guerra a se stessa”. Walter Benjamin lo sapeva, che tesse l’elogio della noia (e del flâneur? Han avrebbe sfondato una porta aperta). Nell’iperattivismo spariscono le riserve benjaminiane, la “facoltà di ascoltare” e “la comunità degli ascoltatori”: “La «facoltà di ascoltare» si basa infatti su una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui l’ego iperattivo non ha vie d’accesso”. In quanto società dell’azione, la società di prestazione si evolve lentamente in una società del doping”.
Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, pp. 83 € 7
martedì 9 luglio 2013
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