Gli viene
da piangere sui “Promessi sposi”. Arbasino ha raccontato la stessa cosa nell’“L’ingegnere
in blu”: a Gadda in ospedale i “giovani” leggevano Manzoni e lui “ascoltava
attento, sdraiato, immobile. Ma aveva uno sguardo spaventato”. Era un ritorno all’adolescenza, a Milano tradita? Gli
ultimi mesi di Gadda furono atroci. Qui, tre note spalmate su
tre mesi, è solo, trattato dalla badante come un rimbambito, al buio perché
“tanto non legge”, imbelvito a volte, la sopportazione non bastando.
Alla soglia
degli ottant’anni l’ultima testimone della morte del suo “scrittore assoluto”,
ne ricorda i momenti finali. Per l’amicizia di cui l’Ingegnere l’aveva colmata,
dopo un’intervista per la Rai nel 1972, “una consuetudine naturale e quasi
familiare, che mi emozionava e onorava”. Il ricordo è affettuoso, il diario
triste. Una dozzina di paginette in tutto (il resto è preso da una nota di
Andrea Casòli), ma valgono come una biografia. C’è la morte di Gadda, non
diversa dalle altre morti, ma c’è una non necessaria brutale agonia.
I
memorialisti del Gadda privato ne fanno una macchietta, cerimonioso, imbranato.
Bizzarro anche nelle ultime ore. Qui non è dispettoso, semmai giustamente in
collera, e non è ipocrita: ha bisogno a volte della “signora Ripa di Meana” e
la chiama al telefono, le chiede il favore di venire e trovarlo, di leggergli
qualcosa.
Ludovica
Ripa di Meana, La morte di Gadda,
Nottetempo, pp. 30 € 3
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