giovedì 4 luglio 2013

Il Sud piange classico

A Calimera, oggi, “la melagrana si chiama sita come la giovinetta Side, che per sottrarsi alle voglie del padre si uccise sulla tomba della madre”, generando col sangue versato i chicchi scarlatti del frutto. Questi canti sono popolari, nei motivi (lamenti, nenie) e probabilmente nella melopea e nella dizione, ma di intonazione elevata: filosofica, mitica. Classica. Sia in morte che in vita degli amati, giacché sono tutti canti d’amore. Non si poetavano in antico le sorti dell’individuo, né si bestemmiava, Dio o la natura. E questi sono canti moderni antichi. Di persistenze: la comunità grecizzante del Salento è ridotta – lo era vent’anni fa, quando Brizio Montinari pubblicava la raccolta (di repertori Il Sud piange classico
Sono testi registrati vent’anni prima): appena sette comuni: meno della metà che cinquant’anni prima, un decimo rispetto a duecent’anni prima, e usava comunemente il gricò meno della metà della popolazione dei sette comuni, ventimila persone.
A vent’anni dalla prima edizione della raccolta, si può osservare che il gricò è ora stabilizzato, grazie ai fondi europei a protezione del bilinguismo. Come il grecanico dell’area di Reggio Calabria. Con effetti, va aggiunto, divergenti. Nel Salento si indirizza al recupero della poesia e della musica, la metrica. Nel Reggino della religione, l’ortodossia.
Nella semopre vivace introduzione Brizio Montinari dà conto delle due letture di queste persistenze: quella che la collega al dominio bizantino, a cavaliere del Mille, e quella, più persuasiva per ragioni fonetiche e sintattiche, che la fa risalire alla Magna Grecia. Leggendo questa raccolta la seconda ascendenza s’impone anche per le fonti della poesia: il canzoniere si apre con un “Moira, Moira, che cosa ti ho fatto….”. Senza “interferenze cristiano-cattoliche e mai comunque in riferimento al mondo sotterraneo”. Il contorno è contemporaneo: chiese, preti, messe, padrenostri, il “visito”, le condoglianze. Il “trattamento” invece è classico. Anche nei canti di morti, prevalenti nella raccolta, opera di préfiche in maggioranza, lamentatrici professionali. Con una significativa divergenza rispetto alle due parti della raccolta che invece sono di canti popolari romanzi, in dialetto latino, dal 29 al 44, e dal XV al XXVII, questi moderni, dallo Stilnovo e Petrarca in qua.
Sono classici i ruoli: il lamento è femminile, il canto d’amore maschile. La figura delle prefica si è estinta nel generale degrado di tutto ciò che è meridionale, ma era di grande dignità: cantava la morte improvvisando ma su modelli e modalità stabiliti dalla tradizione. In antico, prima che la funzione fosse trasmessa alla donna, in quanto depositaria come cultrice della memoria domestica, i canti funebri li intonavano gli aedi. Classica è anche la morte come trapasso, verso l’altra vita. Classica la simbologia, identica: mela, mela cotogna e melagrana sono la “più segreta carne di donna”, l’aidoion. Il morto è compianto, ma soprattutto allontanato: del morto si ha soprattutto paura: e le pratiche e le préfiche erano intese a “facilitare l’allontanamento del morto” e a “prevenire il ritorno del morto”. Si fanno molti inviti al pianto, c’è anzi un dovere di piangere, già Omero vuole “saziarsi di piangere”, ma per scongiuro. La terra è ancora madre – in epoca bizantina sarà tomba: “Ohimè, ragazza mia,\ ohimè – devo dire -\ che fuoco hai addosso! Quale acqua mai te lo spegnerà!\ - Non me lo spegne il mare\ e neanche il fiume salato;\ me lo spegne questa mia madre”. L’oltretomba è ancora ellenico: “È uno specchio forte, dal punto di vista fisico, del mondo terreno. Pieno di monti, fiumi, sorgenti, boschi, giardini. Tra i suoi abitanti vi sono relazioni del tutto simili a quelle della vita di ogni giorno”.
Brizio Montinaro, a cura di, Canti di pianto e d’amore dell’antico Salento, Bompiani, pp. 221 € 7,50

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