Iperborei non sta per arborei, è una sorta di Iper Nord, “oltre i monti Rifei” – da bora, che spira dal Nord. Menghi ne parla come di un’utopia classica, che ritraccia in Ecateo di Mileto, Erodoto, Strabone, Seneca, Plutarco. Tolomeo. Assomigliandola alla Nuova Atlantide di Bacone, all’Atlantide platonica, all’isola di Thule, all’Utopia di Thomas More e alla “Città del sole” di Campanella. Trovandoci, venticinque anni fa, “affascinanti affinità con la Scandinavia nell’Europa del nostro secolo”. Anzi, curvando un po’ i reportage di Cesare e Tacito in ammirazione, nei popoli germanici. Ma è più una fantasia, una diversa parola per popoli noti e limitati.
Nei fatti quello degli iperborei è un regno di Apollo. Che non è l’apollineo di Nietzsche, è un po’ torbido. Non c’erano popoli iperborei, non c’erano nemmeno i monti Rifei. Il lessema risponde alla devozione dei popoli del Nord al santuario di Apollo a Delo, al quale un tempo mandavano il tributo con tre vergini, poi lo mandarono per i buoni uffici dei popoli confinanti. Forse mandavano l’ambra, ma non si sa. Sicuramente era un Nord un po’ basso, tra il Mar Nero e l’Adriatico – poi si diranno slavi. Per Virgilio erano gens effrena, popoli selvaggi. Delo era il più grande mercato di schiavi della Grecia.
Martino Menghi, L’utopia degli iperborei
sabato 20 luglio 2013
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