In Francia no, in Italia invece la festa sembra continua e forse è solo sciacallismo: si moltiplicano le edizioni a mano a mano che scadono i diritti, con la morte dell’autrice a Auschwitz. Già l’anno scorso, ancora quest’anno, e molto si preannuncia l’anno prossimo. La materia non manca: Irène Némirovsky è autrice di quindici romanzi, nonché, grande lettrice di Cechov e Mansfield, di cinquanta novelle. Si moltiplicano inoltre le traduzioni, più o meno approssimate, dello stesso titolo, e così sette o otto editori si contendono la scrittrice sull’esiguo mercato. Passigli, che per primo già una diecina d’anni fa aveva puntato su Némirovsky novelliera, insiste con un’altra piccola scelta. Per una buona metà delle sue novelle ora la scrittrice è tradotta in italiano. È forse la sua misura - Brasillach, ottimo lettore, la trovava migliore nei racconti che nei romanzi.
I primi sono racconti di felicità. Seppure segnata dalla malinconia. Seppure sempre al passato – “siamo stati” felici. Come se la scrittrice proiettasse in anticipo la malinconia della sua fine. Per la filosofia semplice che essa è alla portata di tutti, essendo un “sapore che soltanto l’amore può dare alla vita, un sapore di frutto, appetitoso, succulento, quasi aspro, un sapore di labbra giovani”. Gli ultimi sono racconti degli anni faticosi succeduti alle leggi razziali dell’ottobre 1940, con l’esplicito divieto di pubblicazione per gli scrittori ebrei. “Tradita da Fayard”, il suo editore, così la racconta il biografo Philipponnat, dimenticata dalla “Revue des Deux Mondes”, “abbandonata da “Gringoire”, la sua rivista, nel 1942”.
Le protagoniste – le vittime – di questi racconti sono donne rivoltate. Per “I revenant” Irène aveva recuperato Pierre Nerey, lo pseudonimo-anagramma d’esordio. La narratrice dei “Revenant”, anch’essa a suo modo una resistente, si chiama Hélène, nome che Irène s’era data per “Il vino della solitudine”, romanzo dichiaratamente autobiografico (“come indica senza ambiguità una nota manoscritta sul rovescio del classificatore di «Suite francese”, Philipponnat)»: “Ora anche la pace mi sfugge. È l’ora dei rimpianti”.
Gli ultimissimi racconti, tra essi qui “Le vergini”, hanno come sfondo i paesaggi di “Suite francese”, dello sfollamento a Issy-l’Évêque: luogo giusto per i fantasmi, prodromi alla delazione e alla morte. Ma il tema è il sangue, materia ineliminabile. Come già ne “Il calore del sangue”, uno dei suoi romanzi celebri, si potrebbe dire “la maledizione del sangue”, un antidoto alla ragione, ereditario, contro il quale l’esperienza può poco, anche la resistenza. C’è stata anche questa tragedia nella tragedia.
Irène Némirovsky, Siamo stati felici, Passigli, pp. 160 € 14,50
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