Non fu un “respingimento”,
del resto non c’erano scafisti, ma una saracinesca sì. Joyce scrisse molto in
italiano. E per cinque anni, dal 1907 al 1912, esclusivamente in italiano.
Eccetto il saggio su Dickens, che però è il tema d’abilitazione
all’insegnamento dell’inglese nelle scuole secondarie italiane. Ma con fastidio
dell’Italia: già nel 1911 .il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione gli aveva impedito, scrive, di “trasferirsi nel Paese la cui lingua usa ogni giorno,
avendola scelta deliberatamente come madrelingua per i suoi figli Giorgio e Lucia”, quella dell’amato Denti Alligator, come
scrisse nella domanda per un posto di supplente.
Una lettura
malinconica. Gli scontri di Joyce con la burocrazia per un modesto posto
d’insegnante fanno ridere ma per essere deprimenti. Conoscendo le lettere
italianissime, qui non comprese, ai figli, triestini di nascita e di prima
lingua, agli Svevo, e a Linati, la tristezza si moltiplica. Si capisce che
l’anno dopo, nel 1913, Pound lo salvasse dalla disperazione, cioè dall’Italia.
Giorgio
Melchiori, che ha curato trentacinque anni fa questa raccolta, con Jacqueline Risset
e Gianfranco Contini, ha anche un Joyce romano – le aveva tentate proprio
tutte. Qui ci sono gli scritti italiani compresi nella raccolta Oxford, di “Occasional,
critical, and political writing”. Parte di essi per un progetto di libro, da
intitolare “L’Irlanda alla sbarra”. Più “Anna Livia Plurabella”, i passi di
“Finnegans Wake” riscritti da Joyce in italiano, con le lettere di
accompagnamento a Stanislao, Settanni e Nino Frank – al quale scrive già in
francese.
Il solito
Joyce imprevedibile. Umorista. I “dotti tedeschi” scoprono tutto, anche
Shakespeare. I danesi e i norvegesi sono in Irlanda, nei tre secoli prima degli
inglesi, “gli stranieri neri e bianchi”. Eurista. “Il rinascimento, per dirla
in poche parole, ha messo il giornalista nella cattedra del monaco”. Seminale.
“Shakespeare e Lope de Vega sono responsabili, fino a un certo punto, del
cinematografo”. Anticipatore. “Siamo avidi di dettagli… Il giornalista volgare
è più grande del teologo”. In due delle lettere a Frank c’è la storia della
“Moglie del Sardo”, un romanzo di cui Joyce ha sentito da Larbaud, che poi
sarebbe “La moglie del Sordo”, e invece non esiste – quasi uno scherzo ai
futuri filologi: il joyciano principe Ellmann lo attribuirà a Grazia Deledda.
James
Joyce, Scritti italiani
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