Dolce & Gabbana non si sentono a loro agio a Milano, dove pure hanno otto negozi e un ristorante. L’erede Trussardi sibila: “Milano e la moda? Zero, zero, zero”. Prada se ne tiene lontana, dopo le vicissitudini del collocamento in Borsa. Armani non vende, ma… E questa è tutta la moda a Milano.
Zero non è la cifra giusta, Milano i capitali per la moda ce li ha messi, un po’. Non si può dire che non abbia fatto niente. Ma niente di più. È una città senza glamour e senza qualità – impossibile fare a Milano la conversazione che è possibile a Parigi, New York, Londra, le capitali del bello. Che a lungo si è chiesta cosa fare della moda, a parte farsi le modelle, dopo averle rimpinzate di coca.
La moda a Milano è casuale. Quarant’anni fa, quando la cosa nasceva, aveva sarte, ma non di più né più qualificate che Roma o Firenze, Biki e poche altre. Aveva un’industria tessile (l’eredità di un’industria tessile: erano già i tempi di Felicino Riva). E una forte domanda, soprattutto per la prima alla Scala. Ma non aveva un decimo del richiamo di Firenze o Roma.
Il caso fu la mostra del design italiano progettata dall’Eni nel quadro di un rinnovo d’immagine dell’Ente, di gruppo tecnologico espressione di un paese all’avanguardia nelle tecnologie e i servizi. Che l’Ente realizzò a New York nella sede e con la collaborazione del Moma – se ne occupò per circa un anno Carlo Robustelli, uno dei dirigenti delle pr del gruppo petrolifero. Il litigioso mondo della moda fu zittito d’autorità, e le sperse energie del design, lombarde, piemontesi, toscane, sinergizzate e magnificate nella mostra. Che ebbe un successo oltre ogni aspettativa.
Il Museum of Modern Arts a New York fece suo il progetto: l’idea del principato, l’arte, il lusso, e la vita delle idee, la creatività, la tradizione, la razionalità del secondo grado, e il finanziamento dell’Eni - il finanziamento è negli Usa la parte preponderante dei progetti culturali. Il Moma seguiva da tempo alcuni architetti italiani e il progetto cominciò da lì: il disegno applicato agli oggetti di consumo, il disegno industriale, la figura dello stilista, il disegno applicato all’eleganza – l’ingegneria della vita bella. Nacque il made in Italy – era un buon titolo – e Milano fu lesta a metterci il cappello sopra, i “markettari” e le banche.
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