Un libro che meriterebbe una celebrazione,
per il quarantennale – anche se ci sono voluti quasi altrettanti anni per la
sua pubblicazione in italiano. Sembra semplice: è la scoperta dell’Italia nella
sua arte, nei quadri, le sculture, le architetture, il paesaggio, nell’età in cui si fanno le
scoperte, l’adolescenza: “Il libro ha per oggetto i sogni, le illusioni, che si
rischiano nelle ore di solitudine”, minimizza il poeta nella postfazione
scritta per questa edizione, di Marta Donzelli e Gabriella Caramore. Arricchita
da immagini – d’arte e sociali – quasi tutte sorprendenti. Ma è molto di più.
L’Italia evoca “il buio”, il rovescio dei sassi al sole della “strada bianca”,
per i tanti passati che si accumulano e non si cancellano, o si sublimano
nell’inconscio.: “Le paure più arcaiche, le intravisioni più fuggitive, e le
grida nel nero, anche a mezzogiorno: credo, ho torto, d’incontrarli ovunque
nell’immaginario italiano”. E per il numero, la geometrie che l’Italia
ricompone.
Un libro vero. Una rilettura affascinante dell’Italia,
tra Siena e Urbino. La “dimora a Urbino”, dove Bonnefoy di fatto non ha mai
dimorato. Ma riflettendo giustamente che il palazzo di Francesco di Giorgio
Martini è “l’emanazione dell’arte di Piero della Francesca”. Che, tra tutti gli
artisti, è ben
“il maestro dei numeri” e “essenzialmente
un architetto”, e questa è la ragione della sua ricerca di “armonia delle
forme”: “Il numero, che non è che un sogno, l’incessante sogno del platonismo
attraverso la storia, può tuttavia aiutare a disimpegnarsi dal sogno, pur senza
trascurare niente, in quell’esperienza nuova, e spesso lucida, delle
aspirazioni che avevano dato vita a quel grande miraggio. Ciò che gli consente
di essere ora uno specchio dell’esistenza qual è, non come la si vuole: un
mezzo per la verità”.
Un’antologia, tutto vi è citabile, degno di
nota. “La malinconia, questo desiderio infelice dell’inaccessibile, ama anch’essa,
benché a suo modo, il compasso e la regola”. L’architettura, “liberata grazie
alla «musica»
di cui parla Alberti dalle forme troppo affettate che l’arte gotica
prediligeva”, con l’edificio a pianta centrale (“il centro del mondo è qui dove
ci si trova”), è “il qui e oggi riconquistati, la
finitezza raggiunta, fatta evidenza col mezzo imprevisto del numero”. Una
scoperta che il poeta, dice, ha poi personalmente superato, “nelle sabbie
dell’Asia”, e che tuttavia si legge fertile, seminale.
Una lettura inebriante. “La prospettiva nel
suo progetto d’origine si occupa meno della padronanza astratta dello spazio
che di ristabilire un rapporto della persona col suo luogo naturale – e col suo
corpo – che il pensiero puramente verbale dei teologi medievali aveva
cancellato per troppo tempo. È un incitamento a uscire da quella notte, e un mezzo
per farlo”. Tanto più per essere l’ultima lettura appassionante, una delle
ultime, dell’Italia prima della sua eclissi. Cosa resta, volendo essere
ottimisti, e riemergerà? La lucidità, inconscia, generale, modo di essere (per
accumulo storico? per dna?). “La Notte”, che Michelangelo volle fredda, in
pietra serena, “fra i toni cadi del giorno che bagna l’edificio”, è “una
metafora della notte che resta al fondo di questo giorno, indisfatta, e forse
indisfattibile”.
Yves Bonnefoy, L’entroterra, Donzelli, pp. XXIII + 119 € 23
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