Garboli, che con Natalia Ginzburg ha scelto i racconti di questa raccolta (di cui non è soddisfatto, né della scelta né dei racconti, della maggior parte di essi, compreso quello che dà il titolo alla raccolta, titolo da lui scelto, di cui evita di dire alcunché nella presentazione - Garboli è un po' un prezzemolo snob del secondo Novecento) dice Parise uno scrittore “senza famiglia”. Anomalo cioè, benché beniamino dell’establishment letterario dei suoi giovani anni. Uno che prende da Moravia come da Kafka, ma soprattutto è inventore di se stesso, uno che è “nato scrittore”. “Autorevole”, come qui, già nei suoi vent’anni. Garboli forse voleva dire che Parise ha una sua cifra, la narratività minimale, ben prima del minimalismo, dettagliata fino allo spasimo, in una malinconia inspiegata e quasi insofferta.
Gli aneddoti sono minimi. La passione del viaggiatore compulsivo per la casa, per il radicamento, i compagni di scuola, una o due divagazioni sul tema “l’amore è cieco”, Comisso (“Frate Gioioso”). Molti sono i “parenti bisognosi”, prove del “Prete bello”: i languori dello stomaco e dello spirito, nella provincia veneta della guerra e dopo.
La passione per il radicamento Parise vuole veneta, il Veneto è il protagonista della raccolta, in tutti i modi, per la gente, anche quando è insulsa, il paesaggio, le brume, le luci. Parise sarà stato narratore di frammenti, ma allora geniale. Nel racconto del titolo ci sono gli italo-americani in avanscoperta alla Liberazione anche nel Veneto, anche loro per fare amicizia e sapere di chi fidarsi – non erano una specialità della Sicilia, che invece se ne fa romanzo e storia (i siculo-americani degradando impietosamente a mafiosi).
Goffredo Parise, Gli americani a Vicenza
venerdì 12 luglio 2013
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