domenica 14 luglio 2013

Storia di Mancini

Venticinque anni fa Giacomo Mancini usciva a Catanzaro da un processo per mafia. Che, sebbene sostenuto da una ventina di “pentiti”, finì nell’assoluzione con formula piena, dopo una condanna a Palmi, e non fu appellato dall’accusa. Intanto era stato reintegrato alla carica di sindaco di Cosenza. Due anni dopo moriva.
È una storia paradigmatica, quella di Mancini, anche se cancellata - e più in Calabria, dove più operò - che merita per più di questo aspetto, dell’antimafia mafiosa. Non era la prima volta che Mancini era processato. Indirettamente già nel 1990, dal giudice missino Cordova, che mise sotto accusa tutto il Psi calabrese, Mancini escluso, dopo che il suo partito aveva superato il 20 per cento del voto. A lungo, di persona, e insidiosamente, in precedenza per lo scandalo Anas. Da parte di giudici e giornali qui democristiani. La giustizia politica, oggi di certa sinistra, è sempre stata di destra - ma Mancini ebbe contro anche il solito coro di avvoltoi, giornali e giudici del Pci. Processato sempre con dispiegamento di “prove”, “carte”, “testimoni”, e indiscrezioni, e poi assolto.
Merita cominciare da qui: con la condanna di Palmi, Mancini resterà con Andreotti uno dei due soli parlamentari condannati per mafia – altri politici condannati sono locali, non parlamentari e ministri di lungo corso. Un agguato tutto politico. Montato da giudici che non si nascondevano. Il pm Giuseppe Verzera, discepolo di Codova, con Salvatore Boemi della Procura antimafia, democristiano di destra. Del Pci invece la giudice del Tribunale, che lesse la sentenza forse già pentita – non riusciva a parlare - ma aveva ceduto alla “linea”. Dopo una camera di consiglio record, di sei giorni, quasi sette. Tutti i pentiti essendo in dibattimento risultati non credibili. Presidente era Miranda Bambace, giudici Bianca Serafini e Renata Sessa.
Le tre giudici
L’accusa di Boemi e Verzera erano tutta teorema: la mafia è un organismo unitario; si proietta su tutto il territorio, condizionando la vita sociale, politica ed economica; le cosche non possono non “incontrare” i politici, di cui si fanno delle marionette; in Calabria la politica è Mancini; Mancini è mafioso. Le tre giudici riuscirono a scrivere la sentenza solo molti giorni dopo la scadenza dei tre mesi prescritti per legge. Ma non hanno nessun complesso, e anzi hanno continuato la loro carriera, ognuna a casa sua, come ambivano: Miranda Bambace a Bologna, dove è Procuratrice Generale, niente di meno, Bianca Maria Serafini a Sulmona e L’Aquila, Renata Sessa a Salerno, e su facebook
Un colonnello dei Carabinieri, Angiolo Pellegrini, si occupò di trovare i pentiti nelle varie carceri. In precedenza, alla inchiesta del Procuratore di Palmi Cordova, aveva datio man forte il generale Bozzo, comandante dei Carabinieri in Calabria, collaboratore di Dalla Chiesa, che nelle sue memorie si qualificherà del Pci. Il Procuratore Boemi è diventato nel 2009 direttore generale per gli appalti (proprio così: Stazione Unica Appaltante) dell’Agenzia per gli Appalti della Regione Calabria, quando l’Udc appoggiava in Calabria la giunta Loiero di sinistra. Incarico confermato dalla successiva giunta di destra. Quando, due anni fa, il difensore di Mancini, Paolini, rifece col giornalista la storia del processo, Boemi disse che Mancini era stato condannato e che se la cavò per un “vizio di forma”, l’incompetenza territoriale – tacendo dell’assoluzione nel secondo processo. Pellegrini, generale in pensione, è – è stato a lungo – responsabile della legalità nel porto di Gioia Tauro.
La prova erano sedici pentiti, i quali testimoniavano che in diverse occasioni Mancini avrebbe contrattato i voti con alcune cosche in cambio di favori, come aggiustamenti di processi o aiuti per concessioni di appalti o altro. Tutti i pentiti, dimostratisi inattendibili al processo, furono poi per vari motivi screditati, e mai minacciati da nessuna mafia. Mancini spiegò che si faceva il processo a lui per lasciare via libera ai corrotti e alle mafie, ma le giudici non gli cedettero. “Condannando me hanno assolto la mafia e i politici collusi, che sia il tribunale sia il procuratore Boemi ben conoscono”, disse Mancini all’uscita dal Tribunale dopo la condanna. Ma né Boemi né le giudici si sono querelate.
L’accusa era stata violenta, del tipo sbirresco. Il rinvio a giudizio si fece tra Natale e Capodanno del 1994; Con la sospensione immediata di Mancini da sindaco di Cosenza – sulla base di una recentissima legge poi dichiarata incostituzionale. Il 25 marzo 1996 Bambace lo condannava a tre anni e sei mesi per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Un anno dopo la sentenza era annullata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, per incompetenza di Palmi a giudicare, e le carte del processo mandate a Catanzaro. La Procura di Catanzaro rifaceva l’istruttoria, e chiedeva la condanna di Mancini, ma a una pena minore. Al processo invece fu assolto, il 9 novembre 1999, perché “il fatto non sussiste”.
Tutti giudici di destra a Palmi, democristiani con qualche missino, e la Bambace del Pci. Il processo di Boemi e Verzera s’inscriveva nella campagna di “Mani Pulite” contro la politica e contro i socialisti, ma nel senso furbesco indicato da Mancini, del “fare per non fare”. L’offensiva contro i socialisti, e contro la parte della Dc favorevole al centrosinistra col Psi (Misasi), era stata aperta nel 1990 da Cordova.
Piccola California
Oggi la Calabria cosentina è una piccola California. Lascia pure spazio alla contestazione del “consumo del territorio”, Cosenza appaiando a Los Angeles…. Era un deserto negli anni Cinquanta: orrido, secco, abbandonato. Un attraversamento tristissimo successivamente, dal nulla al nulla, quando l’autostrada ne impose l’obbligo. Ora la mafia vi sarà mafia, ma la gente onesta lavora, può lavorare. Investe, produce. I paesi sono governati: si raccoglie la spazzatura, si controlla l’edilizia, si conserva il conservabile. Non fosse per il reddito, di accumulazione recente, si direbbe un’altra Toscana. Le numerose popolazioni di origine albanese, benché remota, non sono state arricchite come i sudtirolesi ma poco ci manca. La zona paludosa, abbandonata, tra Altomonte e Sibari, è un giardino - nelle paludi peraltro molte coltivazioni, per esempio gli agrumi, precoci e tardivi, o il riso, vengono benissimo, bastava pensarci: averne l’idea, metterci qualche soldo, pochi, saper vendere. In pace con se stessi e gli altri.
Mancini cominciò con l’autostrada, con l’università, che la Calabria non aveva, e la cui costituzione affidò a Beniamino Andreatta e Paolo Sylos Labini, e con un piano regionale di sviluppo – allora, non molti anni fa, i socialisti erano per il “piano”. Il piano aveva voluto affidato a Roberto Guiducci, squisito sociologo milanese, teorico della “città futura” – vent’anni fa, poco prima di morire, aveva individuato le “generazioni defuturizzate”, senza prospettiva nella globalizzazione. Promosse istituzioni culturali e premi. Aprì la strada a un’editoria locale, allora inesistente, col “Giornale di Calabria” e col riscatto delle edizioni Lerici. Oggi i quotidiani calabresi sono almeno tre, e più di una casa editrice ha status nazionale.
La semplice fondazione di quell’università a Cosenza, una vera università, con ottimi docenti e buona organizzazione, ne dà la statura. Un crogiolo di intelligenze, una opportunità per molte famiglie, un investimento a elevatissimo rendimento, e un’operazione culturale che per la Calabria era, ed è, rivoluzionaria. Sulla scia di quella voluta da Mancini, altre città si dotarono poi di università, Catanzaro e Reggio Calabria. Una iniziativa che non è sbagliato quantificare anche in termini economici. La Calabria, due milioni di residenti, e altrettanti emigrati, non aveva università: i medici andavano a Roma, gli avvocati a Messina, gli ingegneri da Napoli in su. Ogni anno un salasso per 50-60 mila famiglie. A una spesa minima di 10 mila euro a studente, una esportazione netta di capitali di 500-600 milioni l’anno – a una spesa probabile di 15 mila euro, un miliardo o poco meno.
L’incarico a Guiducci era bastato per valergli la simpatia di Giorgio Bocca. Benché renitente: non ne parlerà bene post mortem. E questo è il carattere: è vero che Mancini coltivava amicizie non sempre irreprensibili, ma sul lato alto della società. Quella di Andreotti alle Capannelle, essendo entrambi appassionati di corse, il peggiore dossierista di segreti e manipolazioni anti-Psi. O del consigliere di Cefis, Franco Briatico all’Eni. Cui dovette le sue peggiori peripezie giudiziarie. Una storia che merita raccontare in dettaglio.
(1.continua)

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