Un
racconto lungo, insistito, che tuttavia regge la narrazione con costanza. Di
Stefano lo articola a metà tra il racconto verità e quello delle passioni della
povera gente, che sa rappresentare civili: una narrazione documentaria viva.
Non un apologo, come ne faceva Sciascia, seppure in forma di esumazione
documentaria – Sciascia ha ancora, vuole avere e dare, della storia e della
giustizia una rappresentazione ideale. Né una mascheratura, di quelle che
artigliavano Pirandello: è una rappresentazione, piuttosto, nuda. Come al
bordello, che anche a Avola c’era, senza scandalo.
In carcere quando dissero la
verità, li scarcerarono grazie alla menzogna
Il
filo è di una giustizia allora menefreghista prima che terribilista: giudici
impazienti, soprattutto con gli ignoranti, avvocati di classe inevitabilmente
classicisti, “filosofi”, e marescialli dei carabinieri imperativi, di potere
allora indiscusso. Della stupidità malvagia – o della malvagità sotto il
galantomismo, che è sempre stupida prima che feroce. Dice un vecchio pescatore:
“Li misero in carcere quando dissero la verità e li scarcerarono grazie alla
menzogna”. Forse per inverare il proverbio: “La fame per il povero, la
giustizia per i fessi”. Un fronte compatto, compresi i principi del foro a
difesa, contro i massari, i villici e i pescatori che li onorano e li
mantengono, con la fatica e con le tasse, inevitabilmente mutangoli,
sproloquiatori, imprudenti - senza misura.
Un’altra
meraviglia è che, poiché i fatti si svolgono tra Ortigia e i monti Iblei,
sicuramente siamo in Sicilia, ma non ci ingozzano di mafia. Né di omertà: a
Avola si parla, eccome, anche a costo del carcere. Il blurb, di Busi,
dice che “se Giallo d’Avola fosse stato pubblicato nei primi anni Sessanta
e non un mese fa, non meriterebbe meno considerazione de Il fu Mattia Pascal
di Pirandello e si potrebbe gridare al capolavoro”. Strana scelta
pubblicitaria, forse per la parola capolavoro: non è un instant book
attardato, questo “Giallo d’Avola”, è un racconto infine robusto. Per il non
detto più che per il detto, di sapienza stilistica cioè. In sé è un po’ “Conte di Montecristo”, di vizi privati e squallori pubblici, ma la vicenda è realissima e Di Stefano ha scelto di rappresentarla con realismo tolstòjano,
nell’impianto e nella resa.
Anche
la bandella travia. La “secchezza realistica” applicando all’“analfabetismo
dell’anima, o della psiche, che vieta ogni coscienza di sé”. Con corredo di
“lascito antropologico”, di “depressa arretratezza” e di “barbarico, feroce e
precivile”. Mentre è un caso di ingiustizia, cattiva, feroce, su un mondo ben
umano e civile.
Forse
è il fondo a indurre Busi e gli editori in errore, che è purtroppo
contemporaneo. L’errore giudiziario non è un errore: è prepotenza. L’errore è
prodotto dall’ira, l’errore giudiziario è frutto del pregiudizio. Si
concretizza in lunghi, ripetuti, noiosi anche, giorni, mesi, anni di indagini e
di cattiva coscienza, contro un solido principio: prima la colpevolezza, prima
le prove della colpevolezza. Per noia, apatia, prevenzione. Talvolta per
cattiveria. La giustizia in Italia ci ha ormai acconciati, ogni resistenza è
inutile, alla discrezionalità: Non si occupa di provare la colpevolezza - o di
sanzionarla quando è provata. La sua prova principe è l’articolessa di un
giornale – si fa giustizia attraverso la cosiddetta “opinione pubblica”, di cui
Di Stefano rintraccia, nel solo passo in cui si dice narratore, questa
definizione: “Una dea bendata che cammina su un filo e che vien sospinta da
mille mani or in un senso or nell’altro”. Senza la bilancia della dea bendata
giustizia.
Una dea bendata
Un
“Mattia Pascal” vero, dunque. Il fatto è noto, il lieto fine è scontato, e
tuttavia il racconto è sempre vivo. Di pigrizie, classismo, superficialità,
burocrazia, Un buco della storia della giustizia infine riempito – con un
rimprovero muto a Sciascia, che molto scrisse del caso piemontese
Brunelli-Canera, invece che di questo a pochi passi dal paese suo. “Il processo
delle presunzioni”, uno degli avvocati lo definisce: presunto il morto,
presunto l’assassinio, presunti gli assassini. Presuntuosi, si dice il lettore,
gli inquirenti, annoiati, boriosi, prevenuti, e i giudici costretti a
occuparsene, istruttori, procuratori della Repubblica, presidenti di tribunale,
accidiosi, insofferenti – l’ergastolo è pena mite per il loro personale
disturbo.
La
moralità è durissima. Tanto più per non essere dichiarata ma rappresentata.
L’ergastolano riconosciuto innocente dopo sette anni di carcere duro viene
nuovamente ricondannato a molti anni di prigione per violenza alla persona,
anch’essa non provata. Non tanti anni da rimandarlo nuovamente in prigione ma
abbastanza per impedirgli di chiedere i danni al fratello che aveva simulato la
sua propria morte violenta. Il fratello simulatore, reo peraltro di una copiosa
serie di reati in base al codice, ha una condanna a quattro mesi, che non deve
scontare. Assistito sempre, nelle molteplici condanne del fratello e nella non
condanna sua, dallo stesso avvocato (l’avvocato che “fa” le cause per un certo
periodo, presso un certo circondario giudiziario, resta un personaggio da
raccontare). I simulatori vivranno quasi cent’anni, l’innocente morirà molto
presto, dei danni subiti nell’internamento.
Paolo
Di Stefano, Giallo d’Avola, Sellerio, pp. 333 € 14
Nessun commento:
Posta un commento