venerdì 16 agosto 2013

Come condannare un innocente – Tolstòj ad Avola

Si può dare l’ergastolo per un assassinio senza morto, e senza arma del delitto? In Italia sì: per i Carabinieri concordi, la Procura della Repubblica, il Tribunale, la Corte d’Assise e la Cassazione. Che poi, quando il morto resuscita, condannano nuovamente l’ergastolano innocente, per violenza alla persona, sempre presunta, e non il finto morto che aveva inscenato la sua propria morte. Solo gli condoneranno la pena perché l’ergastolano ha già fatto sette anni di carcere duro. Senza scandalo per nessuno, perché le sentenze, com’è noto, si rispettano e non si criticano. Regime? Stalin non pretendeva di avere pure ragione. 
E la materia di questo duro racconto, di molteplici sorprese. Di fratelli anzitutto, una rarità nelle lettere italiane. Di fratelli maschi, tutti di forte carattere, anche i deboli. Della montagna - dell’isolamento - che induce ai cattivi pensieri e alla violenza: in ogni famiglia c’è un assassino. E dell’errore giudiziario per come si produce di fatto, per l’arroganza dell’“autorità costituita”, come usava dire. Un quadro dell’Italia rurale del 1960, anche: non un altro mondo ma un’altra epoca, arcaica, seppure appena mezzo secolo fa - che stranamente latita, in tanto neo realismo. Montato come un giallo. Un noir d’Avola come il vino, con sorprese dunque a catena, e un caleidoscopio di colpevoli. Di Stefano, nato a Avola nel 1956, all’epoca dei fatti, già apprezzato autore di romanzi, è cresciuto con la storia.
Un racconto lungo, insistito, che tuttavia regge la narrazione con costanza. Di Stefano lo articola a metà tra il racconto verità e quello delle passioni della povera gente, che sa rappresentare civili: una narrazione documentaria viva. Non un apologo, come ne faceva Sciascia, seppure in forma di esumazione documentaria – Sciascia ha ancora, vuole avere e dare, della storia e della giustizia una rappresentazione ideale. Né una mascheratura, di quelle che artigliavano Pirandello: è una rappresentazione, piuttosto, nuda. Come al bordello, che anche a Avola c’era, senza scandalo.
In carcere quando dissero la verità, li scarcerarono grazie alla menzogna
Il filo è di una giustizia allora menefreghista prima che terribilista: giudici impazienti, soprattutto con gli ignoranti, avvocati di classe inevitabilmente classicisti, “filosofi”, e marescialli dei carabinieri imperativi, di potere allora indiscusso. Della stupidità malvagia – o della malvagità sotto il galantomismo, che è sempre stupida prima che feroce. Dice un vecchio pescatore: “Li misero in carcere quando dissero la verità e li scarcerarono grazie alla menzogna”. Forse per inverare il proverbio: “La fame per il povero, la giustizia per i fessi”. Un fronte compatto, compresi i principi del foro a difesa, contro i massari, i villici e i pescatori che li onorano e li mantengono, con la fatica e con le tasse, inevitabilmente mutangoli, sproloquiatori, imprudenti - senza misura.
Un’altra meraviglia è che, poiché i fatti si svolgono tra Ortigia e i monti Iblei, sicuramente siamo in Sicilia, ma non ci ingozzano di mafia. Né di omertà: a Avola si parla, eccome, anche a costo del carcere. Il blurb, di Busi, dice che “se Giallo d’Avola fosse stato pubblicato nei primi anni Sessanta e non un mese fa, non meriterebbe meno considerazione de Il fu Mattia Pascal di Pirandello e si potrebbe gridare al capolavoro”. Strana scelta pubblicitaria, forse per la parola capolavoro: non è un instant book attardato, questo “Giallo d’Avola”, è un racconto infine robusto. Per il non detto più che per il detto, di sapienza stilistica cioè. In sé è un po  “Conte di Montecristo”, di vizi privati e squallori pubblici, ma la vicenda è realissima e Di Stefano ha scelto di rappresentarla con realismo tolstòjano, nell’impianto e nella resa.
Anche la bandella travia. La “secchezza realistica” applicando all’“analfabetismo dell’anima, o della psiche, che vieta ogni coscienza di sé”. Con corredo di “lascito antropologico”, di “depressa arretratezza” e di “barbarico, feroce e precivile”. Mentre è un caso di ingiustizia, cattiva, feroce, su un mondo ben umano e civile.
Forse è il fondo a indurre Busi e gli editori in errore, che è purtroppo contemporaneo. L’errore giudiziario non è un errore: è prepotenza. L’errore è prodotto dall’ira, l’errore giudiziario è frutto del pregiudizio. Si concretizza in lunghi, ripetuti, noiosi anche, giorni, mesi, anni di indagini e di cattiva coscienza, contro un solido principio: prima la colpevolezza, prima le prove della colpevolezza. Per noia, apatia, prevenzione. Talvolta per cattiveria. La giustizia in Italia ci ha ormai acconciati, ogni resistenza è inutile, alla discrezionalità: Non si occupa di provare la colpevolezza - o di sanzionarla quando è provata. La sua prova principe è l’articolessa di un giornale – si fa giustizia attraverso la cosiddetta “opinione pubblica”, di cui Di Stefano rintraccia, nel solo passo in cui si dice narratore, questa definizione: “Una dea bendata che cammina su un filo e che vien sospinta da mille mani or in un senso or nell’altro”. Senza la bilancia della dea bendata giustizia.
Una dea bendata
Un “Mattia Pascal” vero, dunque. Il fatto è noto, il lieto fine è scontato, e tuttavia il racconto è sempre vivo. Di pigrizie, classismo, superficialità, burocrazia, Un buco della storia della giustizia infine riempito – con un rimprovero muto a Sciascia, che molto scrisse del caso piemontese Brunelli-Canera, invece che di questo a pochi passi dal paese suo. “Il processo delle presunzioni”, uno degli avvocati lo definisce: presunto il morto, presunto l’assassinio, presunti gli assassini. Presuntuosi, si dice il lettore, gli inquirenti, annoiati, boriosi, prevenuti, e i giudici costretti a occuparsene, istruttori, procuratori della Repubblica, presidenti di tribunale, accidiosi, insofferenti – l’ergastolo è pena mite per il loro personale disturbo.
La moralità è durissima. Tanto più per non essere dichiarata ma rappresentata. L’ergastolano riconosciuto innocente dopo sette anni di carcere duro viene nuovamente ricondannato a molti anni di prigione per violenza alla persona, anch’essa non provata. Non tanti anni da rimandarlo nuovamente in prigione ma abbastanza per impedirgli di chiedere i danni al fratello che aveva simulato la sua propria morte violenta. Il fratello simulatore, reo peraltro di una copiosa serie di reati in base al codice, ha una condanna a quattro mesi, che non deve scontare. Assistito sempre, nelle molteplici condanne del fratello e nella non condanna sua, dallo stesso avvocato (l’avvocato che “fa” le cause per un certo periodo, presso un certo circondario giudiziario, resta un personaggio da raccontare). I simulatori vivranno quasi cent’anni, l’innocente morirà molto presto, dei danni subiti nell’internamento.
Paolo Di Stefano, Giallo d’Avola, Sellerio, pp. 333 € 14

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