venerdì 27 settembre 2013

Dobbiamo il debito alla riforma Visentini

“La crescita del debito pubblico”, rivela Visco a Milano, al convegno in memoria di Luigi Spaventa, “ fu il risultato dell’incapacità di rimuovere i gravi e crescenti squilibri fiscali determinatisi negli anni Settanta e Ottanta”. Determinatisi, dice il presidente della Banca d’Italia, come di un evento accidentale, impersonale. Mentre sono l’esito della riforma Visentini. Che: 1) divise i contribuenti tra chi pagava tutto in anticipo, anche più del dovuto, e chi pagava a consuntivo, sulla base di un’autonoma certificazione di reddito; 2) introdusse  vari privilegi surrettizi, quale lo splitting familiare per esercenti e artigiani, e le spese per la produzione del reddito; 3) tassò le ricevute fiscali così tanto da rendere l’Iva fuorilegge nei servizi privati: subito i  dentisti e gli aiuti domestici (idraulici, muratori, falegnami, elettricisti, meccanici, carrozzieri..) poterono fare sconti contro la ricevuta Iva.
Non erano anni buoni per il sistema produttivo, e Visentini si può giustificare. Un sicuro socialista come Giorgio Fuà poteva calcolare che sia nel 1974 che nel 1975 i redditi da lavoro “hanno assorbito più dell’intero prodotto netto, lasciando le imprese con un margine insufficiente per lo ammortamento e senza nessun margine per l’interesse del capitale”. Quella di Visentini era – è – una riforma produttivistica, che ricostituiva i margini con l’evasione legale. All’ombra del fisco progressivo. Che però “ridusse” le entrate, non le tenne cioè al passo con la crescita del reddito, dell’economia, e della spesa pubblica.

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