“La crescita del debito pubblico”,
rivela Visco a Milano, al convegno in memoria di Luigi Spaventa, “ fu il
risultato dell’incapacità di rimuovere i gravi e crescenti squilibri fiscali
determinatisi negli anni Settanta e Ottanta”. Determinatisi, dice il presidente
della Banca d’Italia, come di un evento accidentale, impersonale. Mentre sono l’esito
della riforma Visentini. Che: 1) divise i contribuenti tra chi pagava tutto in
anticipo, anche più del dovuto, e chi pagava a consuntivo, sulla base di un’autonoma
certificazione di reddito; 2) introdusse vari privilegi surrettizi, quale lo splitting familiare per esercenti e
artigiani, e le spese per la produzione del reddito; 3) tassò le ricevute
fiscali così tanto da rendere l’Iva fuorilegge nei servizi privati: subito i dentisti e gli aiuti domestici (idraulici, muratori,
falegnami, elettricisti, meccanici, carrozzieri..) poterono fare sconti contro
la ricevuta Iva.
Non erano anni buoni per il
sistema produttivo, e Visentini si può giustificare. Un sicuro socialista come
Giorgio Fuà poteva calcolare che sia nel 1974 che nel 1975 i redditi da lavoro “hanno assorbito più dell’intero prodotto
netto, lasciando le imprese con un margine insufficiente per lo ammortamento e
senza nessun margine per l’interesse del capitale”. Quella di Visentini era – è
– una riforma produttivistica, che ricostituiva i margini con l’evasione
legale. All’ombra del fisco progressivo. Che però “ridusse” le entrate, non le
tenne cioè al passo con la crescita del reddito, dell’economia, e della spesa
pubblica.
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