La guerra era attesa in Germania nel 1914, per la
primavera. Curtius e Pasquali ne ebbero separatamente preavviso, Serajevo fu
solo un incidente. Ma è detto en passant,
tra il quadretto di questo o quell’accademico, e altri ricordi, magari di come
all’epoca si stava a tavola. Gli antichisti si divertono, Ludwig Curtius che aveva
scritto le “Memorie”, nel 1950, e Pasquali che qui lo recensiva, nel 1952.
Una “recensione” curiosa, soprattutto di sé, e lunga,
un altro libro di memorie. Duecento pagine di narrazioni, a specchio dei
ricordi dell’amico, anche vive: della famiglia, di Roma, di Firenze, di Forte
dei Marmi, degli studi in Italia e in Germania, degli antichisti, i “magnanimi”
e i “parvanimi”. Di una serie di italianofili di grande rilievo, di cui
naturalmente in Italia non si coltiva la memoria: Giorgio Kano, gli Hildebrand,
altri. Degli artisti, anch’essi dimenticati, con villa-studio sui colli a
Firenze. Della vita privata in Italia a fine Ottocento: gli usi e i tic della
famiglia borghese, le interdizioni alimentari - di acqua e frutta. La sfilata
pomeridiana in carrozza al Corso, con la regina Margherita e, qualche volta, il
re Umberto – rigido e incapace. La villa cardinalizia romana e le ville di
artisti (stranieri) a Firenze. Il bagno vestiti, al mare e nei fiumi.
La forma recensione si presta, Curtius fu personaggio
vivace. Cominciò come precettore di “Willi” Furtwängler,
il futuro maestro, figlio di un direttore di museo. Fu archeologo in Grecia
(Egina) e Turchia, spione in guerra in Grecia e in Bulgaria, e dal 1928
direttore dell’Istituto Germanico a Roma, per dieci anni fino a che Hitler non
lo destituì, su denuncia di alcuni borsisti-allievi – ma di questo si sa per
caso, come pure di Hitler al potere, che quando venne a Roma Curtius si era
rifiutato di omaggiare, benché ne fosse funzionario.
Un atro mondo, che pure fu Italia fino all’immediato
dopoguerra. De Sanctis lamentava nelle note autobiografiche negli anni 1850 un’università
a Napoli clericalizzata, con l’obbligo di certificare la messa domenicale e la
comunione. La stessa cosa attesta Pasquali, senza citare De Sanctis, per i suoi
anni 1950, a Firenze e Roma. Anche i laghi Prespà, tra Grecia e Albania, si può
testimoniare, sono di fascino immutato. Ma molto non è detto, o trascurato, o
minimizzato: i filologi soprattutto si divertono, lievi, cioè superficiali.
Molto si dice di Roma, scontato per due romani, di
buono (“è la prima città umanistica del mondo”) e di cattivo. Cioè
superficialmente. Così come nelle tante notazioni sui caratteri degli italiani
e dei tedeschi, più ridicole che assurde. Da parte di due che non credevano a
queste generalizzazioni – “nulla al mondo è più difficile a intendere che un
popolo”: recensito e recensore fanno a gare nelle grossolanità (banalità) sui
caratteri nazionali. Anche il titolo è ambiguo: dà conto della forma recensione,
ma è come se: 1) Pasquali avesse scritto una storia dello spirito tedesco, e 2)
lo “spirito tedesco” fosse stato a lui contemporaneo. Mentre è solo un’eco dello
“Spirito tedesco” di Benedetto Croce germanofilo
dieci anni prima, che non si cita – uno spirito traviato che Croce, con meno
curve del germanofilo non pentito Pasquali, riporta alla mancata latinizzazione
della gran parte della Germania, e a Lutero, all’io-e-il-mio-Dio.
Curioso ripescaggio di una recensione. Riproposta
per i sessant’anni in edizioncina paludata, con molte note e tre introduzioni,
di Giacomo Devoto, Eduard Fraenkel e Marco Romani Mistretta, tutte a loro volta
con note. Fra le curiosità, la mancanza di un inquadramento del Curtius – che il
lettore configura come uno spirito all’avventura, mentre non lo era. E nessun
accenno, né in Paquali né nei commentatori, al contemporaneo e più celebre Ernst
Robert Curtius, l’inventore del topos letterario e autore del già celebre “Letteratura
europea e Medioevo latino”- non erano parenti, ma s’incontrarono, si
studiarono?
Giorgio Pasquali, Storia dello spirito tedesco
nelle memorie d’un contemporaneo, Adelphi, pp. 260 € 16
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