mercoledì 18 settembre 2013

Il diamante grigio, antenato di “Sostiene Pererira”

Una maratona affannata, in grigio. Quasi un libro “Cuore” della letteratura catalana. Riedito qui con un’introduzione di Sandra Cisneros e una postfazione di Giuseppe Tavani. Che ne fa una nuova traduzione, dopo quella di Giuseppe Cintoli nel 1970 per Mondadori, e quella di Anna Maria Saludes per Bollati Boringhieri nel 1990.
Sandra Cisneros è andata a vedere piazza del Diamante a Barcellona e non l’ha trovata, non come la fantasticava, come se il racconto fosse una cosa reale e non un delirio. Ma la sua ricerca è sintomatica: il lungo racconto segna il ritorno alla narrativa della scrittrice catalana, nel 1962 a Ginevra, dopo un quarto di secolo di esilio dalla Barcellona franchista e di silenzio. Sul canone neo realista allora in auge nella letteratura “latina”, dove il racconto dev’essere dolente, dei balli compresi, gli innamoramenti, i baci, i figli, e la stessa repubblica rivoluzionarioa. Il neo realismo vuole tutto virato sul grigio, di colpe e, peggio, di complessi oscuri di colpa, senza gioie, che se ci sono si soffocano: vite senza orizzonte e senza luce, senza storia in definitiva, e senza spessore, il famoso mondo piatto di Abbott, o a una dimensione – ma in altro senso – del contemporaneo Marcuse, anch’egli allora in auge. Senza elevazioni, né metafisiche né retoriche, né addensanti politici, ideologici, ribelli: “realistici” cioè sofferenti. Secondo il vecchio canone del verismo soprammesso a un certo “impegno” politico, derivato peraltro dal sovietismo.
Sono narrazioni monotematiche, per cancellazione di memoria più che per concrezione: per censure. Non vite perdute: vite non vissute, seppure di fretta. Natàlia,  “Colombetta”, ha momenti lieti, confrontandosi, prima che con un marito buono senza palle, con un uomo che è “l’argento vivo”, seppure con “quel qualcosa che tendeva a far soffrire”. Ma non fa mai alzare la testa al lettore: qualsiasi storia comincia nei 49 capitoletti sa già che finisce male. Vive-scrive però di corsa. E intervalla il disgraziere di humour e fantasie, la cifra anteriore di Mercé Rogoreda, che le aveva dato premi e fama prima delle guerra civile, e che riprenderà nei racconti successivi a questa parentesi – “Piazza del diamante” avrà un sequel quattro anni dopo, “Via delle camelie”. E tiene il lettore avvinto. Una lunga carrellata in soggettiva, si direbbe al cinema, di grande virtuosisimo.  
Il romanzo è un classico catalano. O meglio un libro di culto. Anche in Italia, se ogni vent’anni se ne fa una riedizione. Cisneros ne ha saputo da un parcheggiatore texano. Tabucchi ne fu stregato, prima di Garcia Marquez. Anche se non ricorda bene. Ha scoperto Rodoreda con questo romanzo “alla fine degli anni  Sessanta” e ha tentato invano di proporlo in Italia, dove “c’era un ambiente ostile al romanzo”, ma non se ne stava facendo la prima traduzione, che uscì nel 1970? Anche lui è andato alla piazza del Diamante, e ce l’ha trovata e vi s’è commosso, dice, ma forse era molti anni fa. Ne è rimasto, però, fulminato forse non senza effetto, a distanza: “Sostiene Pereira” forse deve molto a Rodoreda, a questo racconto, ha lo stesso ritmo, della frase breve, e si svolge come una lunga carrellata, seppure con punto si vista sghembo, di una terza che è anche una prima – e col presente invece dell’imperfetto: una soluzione, o “la” soluzione, al discorso indiretto libero che tormentava Pasolini.
Mercè Rodoreda, La piazza del diamante, Beat, pp. 203 €9

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