Un passo in più rispetto al ritratto di
Thomas Mann, ma il Gran Re di Prussia su cui la Germania si è conformata lo
storicista filosofo delle scienze umane vuole tutto “politico”, di testa. Mentre
fu una personalità tormentata, tormentosa, se non scissa, e non progettuale.
Segnato irreparabilmente dal padre Federico Guglielmo I, dal quale tentò di
fuggire a vent’anni. Un padre collerico, che lo educò a cinghiate, lui come la
sorella. E ne fece decapitare l’amico fraterno, imponendogli la presenza
all’esecuzione, dopo la fuga finita male. Uno che si concederà poi tutte le
infamie politiche senza mai tentennare – machiavellismi volgari di un regnante che
debutto con una trattato “Antimachiavelli”.
L’unico limite di Federico è per Dilthey
la francofilia. Mentre questa è – resta – il suo solo spazio di umanità: la
corrispondenza con Voltaire, la poesia, il,”viaggio” fuori dal mondo chiuso
tedesco. Un po’ come per Belino la presenza calvinista, all’epoca quasi la metà
della popolazione, e tra i calvinisti in numero prevalente gli ugonotti.
I due capitoli su “L’alleanza tra
Federico e l’illuminismo tedesco” sono la parte migliore di questa biografia
intellettuale. Anche se andava detto all’inverso: è l’illuminismo tedesco che si
conforma a Federico, alla nuova entità germanica, la Prussia. E il capitolo
successivo, sulla Bildung, il sistema
educativo gerarchico, da Federico II impiantato ben prima e con più robuste
radici di quello umanista di von Humboldt. Dilthey, kantiano, non può ammetterlo,
Wilhelm Dilthey, Federico il Grande e l’illuminismo tedesco
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