lunedì 30 settembre 2013

Il meglio della Prussia era ugonotto francese

Un passo in più rispetto al ritratto di Thomas Mann, ma il Gran Re di Prussia su cui la Germania si è conformata lo storicista filosofo delle scienze umane vuole tutto “politico”, di testa. Mentre fu una personalità tormentata, tormentosa, se non scissa, e non progettuale. Segnato irreparabilmente dal padre Federico Guglielmo I, dal quale tentò di fuggire a vent’anni. Un padre collerico, che lo educò a cinghiate, lui come la sorella. E ne fece decapitare l’amico fraterno, imponendogli la presenza all’esecuzione, dopo la fuga finita male. Uno che si concederà poi tutte le infamie politiche senza mai tentennare – machiavellismi volgari di un regnante che debutto con una trattato “Antimachiavelli”.
L’unico limite di Federico è per Dilthey la francofilia. Mentre questa è – resta – il suo solo spazio di umanità: la corrispondenza con Voltaire, la poesia, il,”viaggio” fuori dal mondo chiuso tedesco. Un po’ come per Belino la presenza calvinista, all’epoca quasi la metà della popolazione, e tra i calvinisti in numero prevalente gli ugonotti.
I due capitoli su “L’alleanza tra Federico e l’illuminismo tedesco” sono la parte migliore di questa biografia intellettuale. Anche se andava detto all’inverso: è l’illuminismo tedesco che si conforma a Federico, alla nuova entità germanica, la Prussia. E il capitolo successivo, sulla Bildung, il sistema educativo gerarchico, da Federico II impiantato ben prima e con più robuste radici di quello umanista di von Humboldt. Dilthey, kantiano, non può ammetterlo,

Wilhelm Dilthey, Federico il Grande e l’illuminismo tedesco

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