È il “romanzo” - ricordo in realtà - di
una madre suicida, cinquantenne. Di un suicidio come “operazione
paradossalmente vitalistica”, commenta Cusatelli, di una madre “per portare
avanti la vita, per portare avanti la letteratura”, del figlio scrittore.
È il ricordo della madre di Handke, morta
suicida l’anno prima, 1971. Di un’estranea tutto sommato, sebbene con
“l’orgoglio che lei si fosse suicidata”. E il primo racconto non
avanguardistico – progettuale, metodologico – dello scrittore.
Una donna piena di vitalità appare al
figlio scrittore povera e banale, una semifolle come la condizione che
precedette il suicidio. E grigia, monotona, senza risorse, senza amore, senza
giudizio. Mentre visse un dramma interminabile, come avviene spesso a quelli
senza storia, specie al confronto con l’Autore scialbo, quale emerge dai fatti
elencati: figlia senza identità, in fuga, di amori squallidi, con figli non voluti
senza padre, e aborti procurati, malattie “incurabili”, migrazioni, riemigrazioni,
ubriacature, percosse, invalidità. In una vita breve. Una vita infelice, e
felice. Di una che sentiva il “bisogno di raccontare”,
di fissarsi di tanto in tanto. Al quale converte, sembra, il figlio – ma molte
pagine sono ancora di incomprensibili tecniche narrative.
Perle
(sfuggite?) sono la vita in Carinzia tra le due guerre e dopo, il (vecchio?)
vagabondaggio tedesco, sformato, tra birra e botte, la vita al naturale, senza
amore, senza desideri. E soprattutto la nazificazione come una festa - una
verità assoluta, benché indigeribile e taciuta. Così come la guerra, finché fu
vittoriosa. “Hitler
alla radio aveva una bella voce”, la madre ricorda. E gli anni del nazismo,
dall’Anschluss alla guerra vittoriosa, furono una festa per tutti, annota lo
scrittore, per tutti i tedeschi: “Dovunque si guardava, una gran festa”. Il
ritmo penetrò fin le plaghe remote e dissipate: tutti divennero parte di un
avventuroso e gratificante disegno, “persino la noia dei giorni di lavoro
prendeva un’aria di festa”, i paguri isolati si ritrovarono proiettati in
comunità vivaci, simpatiche, “come se uno fosse dappertutto a casa sua”, si
ballava, si rideva, e si facevano fotografie. Una liberazione.
Peter Handke, Infelicità senza desideri
Nessun commento:
Posta un commento