Il terremoto di Lisbona l’1 novembre
1755, oltre il grado 9 della scala Richter, doppiato pochi anni dopo da quello
della Calabria, rischiò di far crollare l’impianto illuministico della storia. Maurizio
Barletta si diverte a riesumare le riflessioni che il giovane Kant dedicò all’evento,
e che oggi fanno sorridere – come un po’ ogni altra “antropologia” applicata
del grande filosofo, le sue riflessioni sull’attualità. Ma tutta l’intellighenzia
dell’epoca vi si esercitò. Voltaire ci scrisse sopra il “Poema sul disastro di
Lisbona” e si divertì nel “Candido” a satirizzare Leibniz e il “migliore dei
mondi possibile”. Rimproverando a parte a Rousseau l’ottimismo sulle sorti
progressive della storia. Ma più in generale tutta la cultura dell’epoca,
poeti, polemisti, filosofi, vi si esercitò. Soprattutto i teologi, sfidati dal
resto del mondo sul tema del male – quello che sarà Auschwitz per noi, “che ci
faceva Dio a Auschwitz”.
Adam Smith, “Moral Sentiments”, II, 4,4, ne fece appena
quattro anni dopo una lettura disincantata, ipotizzando il “terremoto in Cina”
- un terremoto “definitivo” ma in un mondo remoto: “Supponiamo che l’impero della Cina con le sue miriadi di abitanti
venga ingoiato da un terremoto. Come reagirebbe un europeo, fornito di umanità,
ricevendo la notizia? Farebbe qualche riflessione malinconica sulla precarietà
della vita e, dopo questo fine filosofare, tornerebbe al suo lavoro o allo svago
come se niente fosse”.
Il trentenne Kant vi si applicò da
filosofo pratico, tentando una teoria dei terremoti. In tre scritti successivi
vene a ipotizzare che la massa terrestre fosse più o meno cava, un’architettura
di grandi caverne, riempite da gas caldi. Una ipotesi come un’altra, ma Kant si
acquisì con questa fantasia il titolo di iniziatore della geografia, e anzi
della sismologia – senza colpa, lui procede allegro.
Immanuel Kant, Scritti sui terremoti, Robin, pp. 97 € 10
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