mercoledì 23 ottobre 2013

Che cosa i terremoti non sono

Il terremoto di Lisbona l’1 novembre 1755, oltre il grado 9 della scala Richter, doppiato pochi anni dopo da quello della Calabria, rischiò di far crollare l’impianto illuministico della storia. Maurizio Barletta si diverte a riesumare le riflessioni che il giovane Kant dedicò all’evento, e che oggi fanno sorridere – come un po’ ogni altra “antropologia” applicata del grande filosofo, le sue riflessioni sull’attualità. Ma tutta l’intellighenzia dell’epoca vi si esercitò. Voltaire ci scrisse sopra il “Poema sul disastro di Lisbona” e si divertì nel “Candido” a satirizzare Leibniz e il “migliore dei mondi possibile”. Rimproverando a parte a Rousseau l’ottimismo sulle sorti progressive della storia. Ma più in generale tutta la cultura dell’epoca, poeti, polemisti, filosofi, vi si esercitò. Soprattutto i teologi, sfidati dal resto del mondo sul tema del male – quello che sarà Auschwitz per noi, “che ci faceva Dio a Auschwitz”.
Adam Smith, “Moral Sentiments”,  II, 4,4, ne fece appena quattro anni dopo una lettura disincantata, ipotizzando il “terremoto in Cina” - un terremoto “definitivo” ma in un mondo remoto: “Supponiamo che l’impero della Cina con le sue miriadi di abitanti venga ingoiato da un terremoto. Come reagirebbe un europeo, fornito di umanità, ricevendo la notizia? Farebbe qualche riflessione malinconica sulla precarietà della vita e, dopo questo fine filosofare, tornerebbe al suo lavoro o allo svago come se niente fosse”.  
Il trentenne Kant vi si applicò da filosofo pratico, tentando una teoria dei terremoti. In tre scritti successivi vene a ipotizzare che la massa terrestre fosse più o meno cava, un’architettura di grandi caverne, riempite da gas caldi. Una ipotesi come un’altra, ma Kant si acquisì con questa fantasia  il titolo di iniziatore della geografia, e anzi della sismologia – senza colpa, lui procede allegro.
Immanuel Kant, Scritti sui terremoti, Robin, pp. 97 € 10

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