martedì 22 ottobre 2013

La vera Colpa è non accusare gli Usa

La Colpa, nonché non essere tedesca, non potrà non essere yankee quando la storia si rifarà, c’è solo da aspettare - nel quadro della Colpa che presto sarà oggettiva, degli eventi, la storia, le vittime. Delle bombe di Eisenhower – nonché di Curtis LeMay l’incendiario, quando il Giappone riavrà fiato per parlare. L’Usbus di Galbraith, US Strategic Bombing Survey, aveva accertato già subito dopo la guerra l’inutilità militare dei bombardamenti: gli Alleati distrussero le città tedesche e gli abitanti ma non l’industria bellica, che anzi, riconcentrandosi, divenne più efficiente. Kurt Vonnegut già nel 1969, un letterato dunque americano, benché d’origine innegabilmente teutonica, aveva per primo narrato l’inferno di Dresda, la città distrutta dalle bombe. Ma la storia freme ancora di essere ricostruita.
La Germania tace, per pudore. Ma Sebald la denuncia l’ha fatta già quindici anni fa, in “lezioni memorabili” dice l’editore italiano che lo patrocina. A Zurigo, piazza neutra. Da scrittore tedesco anglofilo: la Colpa è degli inglesi, anzi degli americani. La Colpa è dei tedeschi solo per la viltà, che mostrano nel non denunciare la vera Colpa. Sembra una vertigine, e lo è. Il bruto negazionismo respinge e tiene solidi, la buona scrittura rarefa l’aria e dà le allucinazioni.
Le bombe in città le ha divisate la Luftwaffe, su Guernica, Coventry, Londra, Stalingrado, e sulla Francia che fuggiva per le strade di campagna, mitragliata a vista. Pure la strategia suona tedesca: a regimi di massa bombe di massa - Hitler, che “alla radio aveva una bella voce”, attesta Peter Handke, amava pianificare con gli slogan. Ma gli americani ne sganciarono di più – senza contare la Bomba. Questo è vero e Sebald può darne il conto, esattamente, come si addice a un buon, malgrado tutto, tedesco:  oltre un milione di tonnellate, su 131 città, con 600 mila morti. E molti fermi immagine. Una madre che vaga col cadavere carbonizzato del bambino dentro la valigia. La lavavetri dell’unico edificio rimasto in piedi in una piazza di macerie. La famiglia che prende il caffè al balcone di casa malgrado le bombe. Il libraio che vende sottobanco le foto dei cadaveri in strada, delle rovine, degli incendi. Per finire con gli elefanti dello zoo di Berlino, che bruciano barrendo e scalciando furiosamente. Intollerabili, anche autolesionista - è propaganda di guerra, un po’ scopiazzata dagli americani (“testimonianze oculari di implacabile precisione”, garantisce l’editore italiano simpatetico).
La Germania non è in guerra e non fa propaganda. Non ancora. Anzi, la distruzione della Germania è in Germania ancora tabù. Ma è matura. Si cominciano a contare i prigionieri di guerra lasciati morire nei campi alleati. E siamo a tre motivi di rivalsa, dopo l’affondamento della “Gustlof”, la nave scuola della Marina, che fa ancora piangere Günther Grass di commozione, e le bombe. E gli stupri dei negri, di cui in Jünger? C’è sempre materia per rifare la storia.
Sebald può procedere indisturbato in quanto non sospettabile, anglofilo e quasi cittadino britannico. E non è negazionista, né è pacifista, contro tutte le bombe: è revanscista. Molto thomasmanniano, molto spiacevole.
Il primo saggio non riequilibra la storia, essendo tutto pencolato sulla colpa anglosassone: la storia non si decontestualizza. Il secondo saggio è un attacco polemico a Alfred Andersch, non spiegato, incomprensibile a un lettore che non sia un letterato tedesco - e uno avvezzo alle polemiche. A meno che Sebald non voglia dire che Andersch era un finto comunista e un vero nazista, cosa che certamente non è vera. L’attacco si legge come i sarcasmi di Thomas Mann sui letterati francofili, cioè su suo fratello Heinrich: il nazionalismo degli scrittori urtante.
Winfried E. Sebald, Storia naturale della distruzione, Adelphi, pp. 136 € 16

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