L’inappetenza di Moravia si proietta
anche sui fatti della politica, di cui, come di tutto, era ghiotto.
L’ambivalenza Simone Casini, studioso moraviano, rovescia: indifferente,
annoiata, mediocre è la realtà in cui Moravia, come i suoi personaggi, ha
vissuto. Ma questo non è possibile e non è vero. Si penserebbe piuttosto a un
difetto di giudizio. Ma neanche questo è vero. Non resta che il conformismo.
Casini parla nell’introduzione, che è
una delle cose migliori di questa riedizione, di “entusiasmo talora
disarmante”, soprattutto nel decennio 1968-78 che più vide Moravia attivo, sul
“Corriere della sera”, “L’Espresso” e altri giornali. Per l’uso, “al tempo
stesso ingenuo e conseguente”, di parole dalle “ampie oscillazioni semantiche”,
come “borghesia, rivolta e fascismo”. È il rimprovero che gli muoveva Gadda in privato
– con peculiare misoginia facendone colpa alla “moglie”: “La gentile Morante
urla e pontifica troppo”, scriveva nel 1959 a Citati riferendo dell’ “ennesima
cena” trasteverina “al tavolo stradale dell’«Impiccetta»”, dalla quale “torno
sfiancato”, diceva, “rintronato e vilipeso”, per le “verbose facilonerie” e
“l’aspra cornacchiante erogazione di teoremi storiografici dei due coniugi
romanzieri”. Al fido Siciliano, che al suo modo garbato gli poneva il quesito
nel 1972 per “Il Mondo” (“da sinistra ci arrivano parole segnate da un’usura
che fa venire in mente la satira di Orwell… «capitalismo», «imperialismo», «lotta
di classe», «socialismo», «libertà»,.e persino «pace »”), risponde che “i
contenuti della sinistra non possono non essere vivi”.
Questa antologia è di scritti politici e
quindi è solo ovvio che la passione politica vi sia dominante. Ma lo è pure
negli altri scritti non narrativi, di letteratura o di viaggi. Una politica però
ingombrante in un apolitico, per questo forse di frustrante rilettura. Agitata
per una sorta di colpa. Al senso pratico (politico) di Arrigo Benedetti, che
gli rimprovera qui l’abuso della parola alienazione e la premiazione di libri
sperimentali illeggibili, Moravia non sa opporre che “la bruttezza, stupidità,
volgarità, ignobiltà, disumanità e insomma irrealtà delle cose e degli uomini
intorno a noi”. Modi di dire.
Forse per questo Moravia è assente o
quasi dalle storie delle idee, o delle intelligenze, in Italia nel Novecento,
da Bobbio ad Ajello. E invece ha grande capacità di analisi. Notevolissimo il
saggio del 1944 sulla “Speranza” – malgrado il titolo proto-compromissorio, “La
speranza, ossia cristianesimo e comunismo”, e lo stesso assunto, che il
comunismo fosse un’idea di libertà “erede e continuatrice di quella cristiana”.
E ha giudizio sicuro. Specie nell’intervista con Renzo Paris, che nel 1980
raccolse questa antologia, di articoli a partire dal 1943, e viene ripubblicata
in questa riedizione.
Si legga a caso. “L’alienazione è inerente
alla natura stessa della civiltà industriale, nella quale in realtà sono le
masse ad alienare le masse”. O: “Perché non viene il sospetto che l’arte in
generale assolve nella società una funzione diversa, anzi opposta, a quella
della politica?” Non nel “realismo socialista”, ma neanche nel postsovietismo,
oggi politicamente corretto, che è il “discorso” dell’intellettuale.
Imbattibile sembra la riduzione della
dialettica politica italiana a “conservazione-conservazione”, invece che
governo-opposizione: “Non è un caso che la più antica monarchia del mondo, il
papato, abbia la sua sede in Italia. Non è neppure un caso che i due maggiori
movimenti politico-spirituali italiani degli ultimi tre secoli siano stati la
Controriforma e il fascismo, i quali hanno entrambi il curioso carattere
tipicamente italiano di adottare, imitare e, si vorrebbe dire, recitare i modi
di autentiche rivoluzioni straniere (la Riforma e la Rivoluzione d’Ottobre) a
scopo di ulteriore conservazione”. I “caratteri nazionali” sono contestabili, di
più se tipicizzati, ma il fondo c’è tutto.
L’8 settembre vede Moravia uscire con un
articolo su pragmatismo e irrazionalismo moderni, D’Annunzio, Wilde, Byron,
Calibano e Pascal. Ma questo è a dire della confusione dell’Italia in quella
data fatidica e in quell’epoca che segnerà – la segna tuttora – l’impervia
democrazia, tra odi immarcescibili. Tuttora gli dobbiamo la mai recepita
distinzione tra “intellettuale organico” e “philosophe”,
quello che vuole cambiare il mondo e talvolta ci riesce (Mussolini, Hitler,
Stalin) e quello che fa le parti della verità.
Parla però da estraneo, malgrado l’ossessività,
fino all’iterazione inconcludente. Specie negli scritti centrali di questa
raccolta, attorno al Sessantotto, che fu un momento di fermenti vivi la di cui
non sa parlare che con la lingua di legno. Che non è la lingua di Marx cui si
appella, che invece scriveva ben vivo, e neppure del Diamat. Forse
dell’“Unità”, o – non si trattasse dello scrittore per eccellenza di quegli
anni – di un “utile idiota”. Si rilegge “Per gli studenti” con stupore, tanto è
radicalmente anti-studenti: “Gli studenti sono una nuova specie di
intellettuali: gli intellettuali ignoranti”, brutali, barbari, borghesi, “ma
questa inconsapevolezza è garanzia di autenticità”. Triplica ignoranza, verrebbe da dire, della cultura,
dell’autenticità, e del Sessantotto. Ma è l’apatia.
L’inappetenza è in realtà l’apatia. Si
può dire l’ingenuità - in un certo senso Moravia era ingenuo, infantile - ma
non accattivante, e anzi verbosa. Di un carattere al fondo misantropico, entro
la patologica socialità - Moravia doveva “uscire” ogni sera. Tanto più in
quanto combinato con una curiosità inesauribile e voglia quotidiana di
protagonismo. L’amicizia fu per lui sempre difficile, con le ex mogli per
esempio, o con Pasolini. Anche con i soggetti che, con parsimonia, beneficò o a
cui guardava con interesse.
Moravia conformista è titolo facile. Ma,
impegnato controvoglia dice da ultimo (erano gli anni del “riflusso”), ha
sempre voluto stare sull’onda. In ogni piega dell’attualità, non da giornalista
ma da censore – solone, reggitore. Non da censore conseguente, più che altro
attonito. Un contemporaneo di Stalin che, come dice lui stesso, sapeva bene del
gulag, ma non capiva. Mentre moltiplicava le inchieste di “Nuovi Argomenti” su
– contro – gli Usa. Non succube della propaganda sovietica, stava attento a
questo, ma senza percepirne il senso politico. Non essendo un opportunista, era
quindi peggio – “la parola dittatura può essere applicata indifferentemente a
qualsiasi regime politico, anche il più liberale”, scriveva nel 1954 (peggio:
“È questione di punti di vista”).
Alberto Moravia, Impegno controvoglia, remainders, pp. XIX + 329 € 4.90
Nessun commento:
Posta un commento