martedì 8 ottobre 2013

Moravia conformista

L’inappetenza di Moravia si proietta anche sui fatti della politica, di cui, come di tutto, era ghiotto. L’ambivalenza Simone Casini, studioso moraviano, rovescia: indifferente, annoiata, mediocre è la realtà in cui Moravia, come i suoi personaggi, ha vissuto. Ma questo non è possibile e non è vero. Si penserebbe piuttosto a un difetto di giudizio. Ma neanche questo è vero. Non resta che il conformismo.
Casini parla nell’introduzione, che è una delle cose migliori di questa riedizione, di “entusiasmo talora disarmante”, soprattutto nel decennio 1968-78 che più vide Moravia attivo, sul “Corriere della sera”, “L’Espresso” e altri giornali. Per l’uso, “al tempo stesso ingenuo e conseguente”, di parole dalle “ampie oscillazioni semantiche”, come “borghesia, rivolta e fascismo”. È il rimprovero che gli muoveva Gadda in privato – con peculiare misoginia facendone colpa alla “moglie”: “La gentile Morante urla e pontifica troppo”, scriveva nel 1959 a Citati riferendo dell’ “ennesima cena” trasteverina “al tavolo stradale dell’«Impiccetta»”, dalla quale “torno sfiancato”, diceva, “rintronato e vilipeso”, per le “verbose facilonerie” e “l’aspra cornacchiante erogazione di teoremi storiografici dei due coniugi romanzieri”. Al fido Siciliano, che al suo modo garbato gli poneva il quesito nel 1972 per “Il Mondo” (“da sinistra ci arrivano parole segnate da un’usura che fa venire in mente la satira di Orwell… «capitalismo», «imperialismo», «lotta di classe», «socialismo», «libertà»,.e persino «pace »”), risponde che “i contenuti della sinistra non possono non essere vivi”.
Questa antologia è di scritti politici e quindi è solo ovvio che la passione politica vi sia dominante. Ma lo è pure negli altri scritti non narrativi, di letteratura o di viaggi. Una politica però ingombrante in un apolitico, per questo forse di frustrante rilettura. Agitata per una sorta di colpa. Al senso pratico (politico) di Arrigo Benedetti, che gli rimprovera qui l’abuso della parola alienazione e la premiazione di libri sperimentali illeggibili, Moravia non sa opporre che “la bruttezza, stupidità, volgarità, ignobiltà, disumanità e insomma irrealtà delle cose e degli uomini intorno a noi”. Modi di dire.
Forse per questo Moravia è assente o quasi dalle storie delle idee, o delle intelligenze, in Italia nel Novecento, da Bobbio ad Ajello. E invece ha grande capacità di analisi. Notevolissimo il saggio del 1944 sulla “Speranza” – malgrado il titolo proto-compromissorio, “La speranza, ossia cristianesimo e comunismo”, e lo stesso assunto, che il comunismo fosse un’idea di libertà “erede e continuatrice di quella cristiana”. E ha giudizio sicuro. Specie nell’intervista con Renzo Paris, che nel 1980 raccolse questa antologia, di articoli a partire dal 1943, e viene ripubblicata in questa riedizione.
Si legga a caso. “L’alienazione è inerente alla natura stessa della civiltà industriale, nella quale in realtà sono le masse ad alienare le masse”. O: “Perché non viene il sospetto che l’arte in generale assolve nella società una funzione diversa, anzi opposta, a quella della politica?” Non nel “realismo socialista”, ma neanche nel postsovietismo, oggi politicamente corretto, che è il “discorso” dell’intellettuale.
Imbattibile sembra la riduzione della dialettica politica italiana a “conservazione-conservazione”, invece che governo-opposizione: “Non è un caso che la più antica monarchia del mondo, il papato, abbia la sua sede in Italia. Non è neppure un caso che i due maggiori movimenti politico-spirituali italiani degli ultimi tre secoli siano stati la Controriforma e il fascismo, i quali hanno entrambi il curioso carattere tipicamente italiano di adottare, imitare e, si vorrebbe dire, recitare i modi di autentiche rivoluzioni straniere (la Riforma e la Rivoluzione d’Ottobre) a scopo di ulteriore conservazione”. I caratteri nazionali sono contestabili, di più se tipicizzati, ma il fondo c’è tutto.
L’8 settembre vede Moravia uscire con un articolo su pragmatismo e irrazionalismo moderni, D’Annunzio, Wilde, Byron, Calibano e Pascal. Ma questo è a dire della confusione dell’Italia in quella data fatidica e in quell’epoca che segnerà – la segna tuttora – l’impervia democrazia, tra odi immarcescibili. Tuttora gli dobbiamo la mai recepita distinzione tra “intellettuale organico” e “philosophe”, quello che vuole cambiare il mondo e talvolta ci riesce (Mussolini, Hitler, Stalin) e quello che fa le parti della verità.
Parla però da estraneo, malgrado l’ossessività, fino all’iterazione inconcludente. Specie negli scritti centrali di questa raccolta, attorno al Sessantotto, che fu un momento di fermenti vivi la di cui non sa parlare che con la lingua di legno. Che non è la lingua di Marx cui si appella, che invece scriveva ben vivo, e neppure del Diamat. Forse dell’“Unità”, o – non si trattasse dello scrittore per eccellenza di quegli anni – di un “utile idiota”. Si rilegge “Per gli studenti” con stupore, tanto è radicalmente anti-studenti: “Gli studenti sono una nuova specie di intellettuali: gli intellettuali ignoranti”, brutali, barbari, borghesi, “ma questa inconsapevolezza è garanzia di autenticità”.  Triplica ignoranza, verrebbe da dire, della cultura, dell’autenticità, e del Sessantotto. Ma è l’apatia.
L’inappetenza è in realtà l’apatia. Si può dire l’ingenuità - in un certo senso Moravia era ingenuo, infantile - ma non accattivante, e anzi verbosa. Di un carattere al fondo misantropico, entro la patologica socialità - Moravia doveva “uscire” ogni sera. Tanto più in quanto combinato con una curiosità inesauribile e voglia quotidiana di protagonismo. L’amicizia fu per lui sempre difficile, con le ex mogli per esempio, o con Pasolini. Anche con i soggetti che, con parsimonia, beneficò o a cui guardava con interesse. 
Moravia conformista è titolo facile. Ma, impegnato controvoglia dice da ultimo (erano gli anni del “riflusso”), ha sempre voluto stare sull’onda. In ogni piega dell’attualità, non da giornalista ma da censore – solone, reggitore. Non da censore conseguente, più che altro attonito. Un contemporaneo di Stalin che, come dice lui stesso, sapeva bene del gulag, ma non capiva. Mentre moltiplicava le inchieste di “Nuovi Argomenti” su – contro – gli Usa. Non succube della propaganda sovietica, stava attento a questo, ma senza percepirne il senso politico. Non essendo un opportunista, era quindi peggio – “la parola dittatura può essere applicata indifferentemente a qualsiasi regime politico, anche il più liberale”, scriveva nel 1954 (peggio: “È questione di punti di vista”).
Alberto Moravia, Impegno controvoglia, remainders, pp. XIX + 329 € 4.90

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