Una congrua riproposta di Paolo Baffi, governatore
intemerato della Banca d’Italia, per ristabilire la dignità della Funzione
Pubblica – caduta purtroppo, almeno finora, nel vuoto. Con un suo ritratto di
Sandro Gerbi, e un saggio di Beniamino Andrea Picone, i due curatori ne hanno
collazionato le quattro “Considerazioni finali” sullo stato della finanza
pubblica, un’analisi che la Banca d’Italia effettua ogni anno a fine maggio, e
le note di diario sulla vicenda giudiziaria di cui fu vittima - titolate “Cronaca
breve di una vicenda giudiziaria” alla prima anticipazione, da parte di Massimo
Riva, su “Panorama” nel 1983, e poi riprese integralmente nel 1990.
Il personaggio era, benché scostante all’apparenza,
accattivante. Già a capo dell’ufficio Studi nel 1944, a suo agio con la
pubblicistica e gli interlocutori anglo-americani, di ottimo fiuto nelle
questioni monetarie, Einaudi lo scelse a suo interlocutore nei tre anni che
passò al vertice della Banca d’Italia, fino al 1948. Fece carriera con gli anni
fino a diventare il direttore generale di Carli. E alle dimissioni di Carli, a
Ferragosto del 1975, fu scelto dal governo come governatore. Il primo dirigente
della Banca d’Italia chiamato a quell’incarico. Fortemente voluto da Ugo La
Malfa, che lo impose al presidente del consiglio Moro. Con l’appoggio del Pci,
i cui economisti, Eugenio Peggio e Luciano Barca, ne apprezzavano lo spirito indipendente.
Baffi fu governatore negli anni forse
più bui della storia non limpida della Repubblica, fino al Ferragosto del 1979.
Anni che Tomaso Padoa Schioppa, uno dei suoi collaboratori, metterà tra “i più
duri e disgraziati” della storia della Repubblica: inflazione, caro-petrolio,
punto unico di contingenza (“salario indipendente”), terrorismo, delitti
oscuri, la “messa a morte di Aldo Moro” compresa. Avrebbe potuto aggiungere le
riserve vuote di valuta: Carli lasciò per questo e Baffi, in uno dei suoi primi
provvedimenti, dovette sospendere per quaranta giorni il cambio – per riaprirlo
lievemente svalutato. Ma soprattutto avrebbe dovuto aggiungere Andreotti,
perché di questo si tratta: era l’Italia di Andreotti, al coperto del
compromesso storico con Berlinguer.
Gerbi rappresenta lo schivo Baffi, nel
ritratto con cui apre la raccolta, alla camera ardente di Ugo Baduel, giornalista
economico dell’“Unità” intimo di Berlinguer. Nonché corrispondente perfino
affettuoso dello stesso Berlinguer in
almeno un caso, in risposta alla lettera di solidarietà che il leader del Pci
gli aveva inviato. Ma non era Berlinguer il sostegno di Andreotti? Che di Baffi
e della banca d’Italia aveva ordinato e effettuato un inarrestabile impeachment. Con l’accusa di favoreggiamento e interesse
privato, a marzo del 1979, e la carcerazione del suo vice-direttore generale
Mario Sarcinelli. Disposte da un giudice naturalmente, anzi da due, Alibrandi e
Infelisi. Ma volute da Andreotti. Per un fatto preciso, anzi per due: il
rifiuto di avallare il compromesso al ribasso per il rientro dei debiti dei Caltagirone
con l’Italcasse, e il no opposto al “piano Sindona” dell’allora presidente del
consiglio.
La “Cronaca breve” è al riguardo, nello
stile tacitiano di cui Baffi si compiace, molto esplicita. La disgrazia
sopravenne dopo che lo stesso Baffi fu convocato con Sarcinelli da Stammati, banchiere,
all’epoca andreottiano ministro del Tesoro, per avallare un piano favorevole ai
Caltagirone. E dopo che Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza e
segretario politico di Andreotti, convocò a palazzo Chigi Sarcinelli per imporgli
il salvataggio di Sindona. Le pressioni sui debiti dei Caltagirone risultano
numerose nella breve cronaca.
Cambi flessibili
Resta da
esplorare l’azione di Baffi a protezione della lira e del risparmio. Gerbi accenna
alla sua idea di un titolo del Tesoro a rendimento garantito contro l’inflazione.
È la formula grosso modo del Btp Italia, che sta aiutando non poco a
consolidare lo sconsiderato debito pubblico. Più importante, forse risolutivo, sarebbe
stato il suo governo dell’euro che allora si tentava di costruire.
I primi dubbi erano nati in
Italia sullo Sme, il progenitore dell’euro, il Sistema monetario europeo. I
“cambi fissi ma variabili” dello Sme facevano impazzire Baffi, fautore dei
cambi flessibili, per sterilizzare l’effetto monetario, l’impatto del cambio
sull’inflazione. Il suo predecessore Carli, della generazione dei cambi fissi,
era del resto rimasto a corto di riserve, di dollari e anche di oro, avendo dovuto
darlo in pegno alla Bundesbank per un prestito. Ciampi, che presto sostituì
Baffi, invece ne fu convinto sostenitore, al punto da rivalutare la lira sul marco.
Il bluff fu sgonfiato dallo speculatore Soros nel 1992, ma l’aggancio della
lira al marco fu ripetuto. Al punto da accettare, per superare l’avversione
della Bundesbank, un euro a due marchi.
Il ragionamento di Baffi è
stato riproposto ultimamente invece in Germania. Seppure in un libro “provocatorio”,
“L’Europa non ha bisogno dell’euro”, e da parte di un eterodosso quale Thilo
Sarrazin, ex consigliere Bce e europeista. “Non
possiamo costringere i francesi a sostenere il nostro modo d’intendere
l’economia”, l’argomento di Sarrazin è semplice: “La ragione economica ci dice
che sarebbe meglio tornare a un sistema integrato ma con tassi di cambio
variabili”.
Ma,
soprattutto, da Baffi resta ancora da trarre il ristabilimento dell’etica
politica. Forse veleno in queste epoca di estrema decadenza delle istituzioni e
della funzione pubblica. Nonché della capacità di analisi e di proposta. Esito
di acume e di applicazione.
Paolo Baffi (a cura di S.Gerbi, B.A.Picone),
Parola di governatore, Aragno, pp. 290
€ 25
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