Uno degli
ultimi Simenon, del 1966, cinque anni prima della decisione di non scrivere
più, a 69 anni. Che l’immagine di Simone
Signoret e Jean Gabin nell’omonimo film non allevia – un film apprezzatissimo (eccetto
che in Italia, che lo coprodusse ma dove il film fu liquidato anonimo, come “L’implacabile
uomo di Saint-German”): Gabin, interprete di una decina di film tratti da
Simenon, e Simone furono premiati a Berlino. Un esercizio di ripetizione,
ossessivo. E al solito acatartico, più delle altre storie “dure” del finto
simpaticone Maigret-Simenon.
Qui la durezza è aggravata dal sospetto biografico: i velenosi separati in casa ripetono le cattiverie reciproche della madre propria dello scrittore col suo secondo marito, di cui in una pagina di “Lettera a mia madre”, scritta subito dopo il proposito di non “scrivere” più. Nella quale Simenon introduce i suoi stessi due matrimoni, più un terzo che allora viveva in forma di convivenza - non felice, fa capire.
Qui la durezza è aggravata dal sospetto biografico: i velenosi separati in casa ripetono le cattiverie reciproche della madre propria dello scrittore col suo secondo marito, di cui in una pagina di “Lettera a mia madre”, scritta subito dopo il proposito di non “scrivere” più. Nella quale Simenon introduce i suoi stessi due matrimoni, più un terzo che allora viveva in forma di convivenza - non felice, fa capire.
Un esercizio
di bravura anche, più che un racconto. Che
è scontato negli sviluppi dalla prima riga: si va avanti nella lettura per la
“pasqualite” alla Arbore, per “vedere come finisce”, ingufiti tra dozzine
di cattiverie. Insostenibili. Una
lettura come un’esercitazione di resistenza.
La storia è questa:
due vecchi coniugi si odiano, senza potersi separare. I due si sono sposati tardi,
vedovi di 65 e 63 anni. E quindi, si penserebbe, a ragion veduta. Invece hanno
il solo pensiero di farsi dispetto. Lei ha forse avvelenato il gatto di lui,
lui ha ferito a morte il pappagallo di lei. E ora si parlano in silenzio,
l’odio dell’uno è noto all’altro, non si sgarra. Lui, tra le
tante cattiverie, usa fumare “sigari italiani, informi nerissimi, fortissimi, che
sono detti chiodi da bara”. Ma argomenta, brutta spia, meglio di lei - la misoginia non doveva costare a Simenon, che a dispetto dei suoi due o tre matrimoni vantava una prostituta al giorno.
Non è la sola storia di matrimoni terribili. Ma è una storia senza mai un barlume, o altrimenti schematicamente spento.
Georges
Simenon, Il gatto, Adelphi, pp. 165 € 10
Non è la sola storia di matrimoni terribili. Ma è una storia senza mai un barlume, o altrimenti schematicamente spento.
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